30 maggio 2006

Il voto di Rimini

Il voto amministrativo di Rimini ha una clamorosa sorpresa.
Forza Italia passa da 25.335 voti a 12.128 (-52,13%). Qualcosa (+16,26) va ad AN che sale da 8.691 a 10.113.
Il Centro-Destra era senza un candidato storico, al contrario del Centro-Sinistra che ha rieletto il sindaco uscente Alberto Ravaioli.
Il candidato improvvisatosi all'ultimo momento, succedeva ad un altro gettatosi nella mischia e poi fermato.
Ufficialmente dal cuore (problemi di salute), ma immaginiamo anche dal «portafoglio»: lui gridava troppo forte un «sogno» nuovo che avrebbe rovinato molti affari in corso.
Con la vecchia amministrazione, il Centro-Destra non se l'è passata poi così male.
Due assessori dimessi (defenestrati) per la questione del troppo cemento non sono episodi da nulla.
Tutto ciò faceva prevedere non il ballottaggio per Ravaioli, ma addirittura la sua sconfitta al primo turno.
Invece. Per la serie: l'orco non è poi brutto come lo si dipinge.
Antonio Montanari

28 maggio 2006

il marcio su Roma

Su 10 elettori del Centro-sinistra 3 sono stati convinti da Prodi e gli altri 7 da Berlusconi. La nostra finta notizia era destinata a restare segreta soltanto perché corrisponde ad una verità di fatto sgradevole ma inconfutabile. Al contrario di altre invenzioni che circolano liberamente per confondere le menti. Parola di Barbara Palombelli. La sua rubrica nel settimanale illustrato del «Corriere della Sera» del 25 maggio inizia così: «Esistono due categorie di persone: i calunniati e i risparmiati. [...] Nel mondo del giornalismo, le due tribù sono visibili, si potrebbero fare nomi e cognomi». Il suo divertente elenco è troppo lungo da riportare. Ricordiamo soltanto il «grande direttore» che ha sempre obbedito ai poteri forti e che «oggi passa per giustiziere dalla parte dei deboli e c'è pure chi ci crede». Arriviamo alla conclusione: «Iscritta da anni alla categoria dei calunniati, frequento avvocati e tribunali da tempo immemorabile».

Un'altra giornalista, Elena Polidori, ha pubblicato il libro «Via Nazionale. Splendori e miserie della Banca d'Italia». Lei pure parla di due calunniati speciali. Nel 1979 il governatore Paolo Baffi è incriminato, il suo vice Mario Sarcinelli arrestato. Dietro ci sono le «implicazioni politiche» che mirano a salvare il bancarottiere mafioso Michele Sindona. Sono gli anni in cui è ucciso il liquidatore della fallita Banca Privata Italiana di Sindona, Giorgio Ambrosoli, avvocato «rigoroso ed onesto» (I. Montanelli). Per leggere nomi e cognomi di chi macchinò contro Baffi e Sarcinelli, rimandiamo al volume. C'è un senatore a vita vivente.

Giuliano Ferrara in tv ha proposto a Massimo D'Alema di mettere per iscritto una promessa, una specie di salvacondotto a Berlusconi per svolgere libere e pacifiche manifestazioni di protesta nelle piazze. Eugenio Scalfari su «Repubblica» ha osservato che «il comune senso del pudore ha fatto fagotto». Perché scandalizzarsi? Ferrara interpreta l'eterno sogno politico della Grande Borghesia italiana: fare la rivoluzione con il permesso del Signor Questore. Il Cavalier Berlusconi non marcerà su Roma. C'è già. Un suo fervido sostenitore, Angelo Panebianco («Corsera»), gli ha rimproverato di illudersi con il «giocare allo scontro frontale», e di non sapere fare l'opposizione favorendo così il governo. La prossima volta 9 elettori di Prodi su 10 saranno convinti da Berlusconi. Un piccolo sforzo del Cavaliere e si arriverà a 10 su 10.

26 maggio 2006

Guido Nozzoli

Intervengo premettendo di non voler mescolare l'istanza personale che mi spinge con il necessario distacco che è doveroso quando si tratta un qualsiasi argomento in un mezzo pubblico come un blog.

Alla base della mia pagina sta però anche un’inevitabile appendice pubblica della stessa istanza personale. Ovvero ciò di cui parlo, non è un puro accadimento legato al soggetto tirato in ballo nel libro di cui dirò, ma il «modus operandi» con cui il soggetto medesimo è stato riproposto all’opinione della città.

Mi riferisco alla stampa di alcune pagine di fantasia storica relative ai Templari riminesi ed ai pretesi «frammenti di una leggenda di un anonimo riminese», nelle quali si legge un'attribuzione di paternità di ipotesi sull'argomento ad una persona che conosco benissimo, per essere stato un mio stretto congiunto.

Che questi «frammenti» non possano avere pretese documentarie sotto il profilo storico lo suggerisce anche lo svarione iniziale in cui l'impeto favolistico spinge l'«anonimo riminese» ad ideare la scena nell'alba del 13 ottobre 1307 con in lontananza l'Abbazia di Scolca che «si vedeva appena» (p. 25).

Credo che non si vedesse affatto, e non per colpa della poca luce, ma essendo l'Abbazia di Scolca stata edificata nel 1418 come, per altra mano, nello stesso testo si legge poco prima (p. 20). Ovvero ciò che sa la pagina di destra non sappia la pagina di sinistra.

Embé, se si vuol scrivere di Storia occorrerebbe documentarsi (da parte dell'«anonimo», avvezzo evidentemente a tutt'altre cose) o necessiterebbe correggere da parte del curatore dell'opera.

Lo svarione avrebbe potuto far rinchiudermi le pagine, ed amen. Per fortuna ho continuato a leggere sino a questa chicca di p. 29, dove (riassumo per brevità) si attribuisce ad un'unica mente l'ideazione dello studio-leggenda, la mente del «compianto giornalista Guido Nozzoli che di occultismo ed esoterismo era più di un appassionato cultore».

Dandosi il caso che appunto Guido Nozzoli era fratello di mia madre, e che di questi argomenti (su opposte rive) lui ed io abbiamo attentamente discusso tante volte per cui sono al corrente di tutti i suoi studi e delle sue cosiddette ricerche, mi permetto di intervenire per demistificare un alone di mistero che si è creato in città attorno alla sua figura, e che è ben rispecchiato dalla citazione che ho appena riportato.

In cui vedo riflettersi una di quelle ambiguità letterarie che possono fare la fortuna di un autore (nel caso, l'«anonimo» che ne narra) e la rovina di un personaggio (come «Guido Nozzoli che di occultismo ed esoterismo era più di un appassionato cultore»).

La dolorosa situazione in cui venne a trovarsi per la perdita della figlia nel 1992, costituì per lui l'inconsapevole aggravamento della spinta verso interessi e studi precedenti che riguardavano l'alchìmia, senza che egli però potesse rendersi conto del contrasto che aveva vissuto tra la certezza che alcuni pseudo-ricercatori gli davano circa l'esistenza di sostanze naturali capaci di guarire qualsiasi malattia, ed il progredire inesorabile di quella della figlia stessa.

Sono sicuro che la sofferenza di padre gli abbia procurato una specie di dissociazione tra la realtà ed il sogno, come prima avvisaglia della demenza senile che ha duramente caratterizzato gli ultimi anni della sua vita.

La mia chiarezza e puntualità nel riferire questi particolari non va intesa come indelicatezza verso mio zio, ma come occasione necessaria per chiarire certe situazioni che in città vengono artatamente mistificate.

Al contrario è abbastanza volgare l'accenno che ne fa l'«anonimo» quando parla di «un ormai vecchio, ma sempre fascinoso, Guido Nozzoli». Anche qui c'è una nascosta allusione in quell'«ormai vecchio», come nell'«era più di un appassionato cultore».

Ecco perché ho parlato di ambiguità letterarie. C'è chi cerca il suo quarto d'ora di notorietà con questi mezzucci, senza dichiararsi, e soprattutto inventando aspetti di una persona fino a farne un personaggio che non risponde al vero, avendo la persona in questione alle sue spalle studi filosofici d'indirizzo marxistico mai ripudiati ed anzi confermati sino all'ultimo giorno nel loro risvolto di «prassi» politica.

Lasciamo in pace i defunti, altrimenti creiamo fantasmi che non corrispondono al vero, e che soprattutto non possono correggere le fantasie dei posteri.
Antonio Montanari
Rimini, 26 maggio 2006

25 maggio 2006

Riviera «nera»

La Riviera «nera», tra cronaca e romanzo
Un delitto vero ed una storia inventata

Fuori stagione. Il dato di cronaca legato ad una vicenda vera, l'omicidio di Elio Morri sul lungomare sud di Rimini, è anche il titolo di un romanzo annunciato su Internet nelle stesse ore in cui le agenzie di stampa battevano la notizia del delitto riminese. E ancor più strana coincidenza, in «Fuori stagione», opera del giornalista Enrico Franceschini, si parla di un fatto di «nera». Ambientato sulla nostra costa, in un luogo di fantasia ma ben localizzato «fra Rimini e Pesaro».
Il solito inverno, i consueti alberghi chiusi, l'immancabile «Caffè dei Marinai» dove si gioca, si beve, si spettegola. Il protagonista è Quinto Baldini. Reduce dall'Africa dove ha fatto i soldi con riciclaggio di immondizia, traffico di avorio, distillerie di alcolici. Trasferito il capitale in Italia, ha avuto giorni neri per il fallimento delle sue attività. Si è salvata soltanto l'abitazione dove Baldini sta con moglie e figlia.
Dice una scheda del romanzo (presentato la settimana scorsa a Bologna, Milano e Roma): «Sullo sfondo della vicenda di Quinto Baldini, si delinea un quadro squallido e spietato della provincia italiana». Questa benedetta provincia che, secondo i punti di vista, è luogo di salvezza o di perdizione di tutto: dall'anima al portafoglio.
Anche per il delitto Morri se ne è discusso. Un inviato che se n'intende perché è di Bologna, Jenner Meletti, su «Repubblica» ha scritto: «Rimini è sempre stata una periferia d'Italia». E noi, illusi, che ci credevamo di essere una (se non «la») capitale del turismo europeo.
Franceschini, nato a Bologna nel 1956, lavora a «Repubblica» come corrispondente dall'estero: per otto anni è stato a Mosca, poi a New York, a Washington ed attualmente si trova a Gerusalemme. Nel 1994 ha ricevuto il Premio Europa per il suo reportage sulla rivolta armata nelle strade di Mosca. Tra i suoi libri troviamo «I padroni dell'universo. L'America dei nuovi persuasori occulti» (1990), «La rivoluzione di Boris (1991), «Wall Street: la borsa e la vita (1988), «La donna della Piazza Rossa» (1996), «Russia. Istruzioni per l'uso» (1998).
Antonio Montanari

23 maggio 2006

Donne al governo

Le donne, i senator, l'ira e i furori io leggo, che furono al tempo che passò il Prodi di sopra al Colle a nominar ministri. Erano tante le signore attese per il giuramento del nuovo governo. Molte le promesse fatte, poche quelle mantenute. La questione femminile in Parlamento si è svolta in tre tempi. Prima con le quote rosa, la riserva indiana in cui salvaguardare la dignità politica dell'altra metà del cielo. Poi la certezza che era meglio concedere qualcosa piuttosto che fare conquistare alle donne una posizione istituzionalmente garantita. Infine lo scherzo: soltanto sei donne al governo, ovvero il 24% degli incarichi assegnati contro il tanto sbandierato 33. Il primo a sentirsi umiliato è stato Prodi. Si aspettava di più. Era stata sua la promessa del terzo del potere. Ha dato la colpa ai partiti: non hanno fatto proposte. D'accordo è stata Livia Turco, una delle prescelte e soprattutto fortunata perché andata ad un dicastero, quello della Salute, con portafoglio. Del quale sono invece prive le altre sue cinque colleghe.
Una notizia inedita. Era stato progettato anche il Ministero per le ministre, da affidare ad un uomo per rispettare gli equilibri del manuale Cencelli. I segretari dei partiti della coalizione si basavano sull'analogia con il ministero delle politiche della famiglia, attribuito ad una nubile, Rosy Bindi. Allo stesso modo, hanno pensato, possiamo attribuire ad un maschietto la guida delle politiche ministeriali che riguarda le femminucce. Le colleghe dei partiti per vendicarsi avevano avanzato una contro-richiesta, un ministero per i ministri maschi da affidare ad una esponente del gentil sesso. Non è piaciuta la parità costituzionale. Si è detto: le donne comandano in casa e non al governo, come la vicenda conferma.
In Gran Bretagna sono 6 le ministre sul totale di 11, in Spagna 8 su 16, in Svezia 11 su 22. La Germania ha un primo ministro, Angela Merkel, tanto forte da poter mettere una tassa sui ricchi ed aumentare l'Iva. La sua Grande coalizione era stata proposta dalla nostra Destra anche per l'Italia: adesso non piace più. Qui una signorina dotata di brio intellettuale, Barbara Berlusconi, critica le tv di famiglia scatenando un maschilismo rabbioso. Maurizio Costanzo l'ha chiamata giovinetta con la scienza infusa. Il pubblico le dà ragione: un programma con i comici degli anni 80 è fallito. Adesso i politici capiscano che non sono sorpassati soltanto i comici degli anni 80.


18 maggio 2006

Poteri forti

Ha scritto Enzo Biagi: «È possibile che ogni volta che in Italia si scopre una pentola non ci sia mai un brodo buono?». E Lietta Tornabuoni: «Già, ma il calcio non è solo». E poi: «Questa corruzione di massa, allargata e quotidiana sarà più difficile da correggere o da abolire di leggi già vecchie: ma è la cosa più necessaria». Non mancano le sfumature originali: il signor Luciano Moggi garantisce che non esiste nessuna cupola nel gioco del calcio, e che per vincere gli scudetti lui ha dovuto difendersi dai «poteri forti».
La formula dei «poteri forti» funziona sempre. Noi da poveri illusi abbiamo sempre ritenuto che fra essi andasse collocata anche la famiglia Agnelli che è di casa nella Juventus. Evidentemente ci siamo sbagliati. Ma per favore, signori della Corte e dalle lunghe vedute, spiegatevi meglio. Pubblicate infine una mappa di questi «poteri forti», mettete una segnaletica stradale, indicateli sotto le testate dei quotidiani. Da mesi, per ogni affare giudiziario che emerge dalle cronache, si ascolta l'autodifesa che non sappiamo se ingenua o se arrogante: mi sono battuto contro i «poteri forti», e guardate che fine mi hanno fatto fare. Un Paese democratico si basa sopra un unico forte potere, quello della Legge uguale per tutti. Ormai nelle nostre contrade quando si sentono queste parole, viene da ridere. Il nuovo capo dello Stato ha detto nel suo messaggio d'investitura che «sono purtroppo rimaste critiche le condizioni dell'amministrazione della giustizia, soprattutto sotto il profilo della durata del processo». Nella sua lunga carrellata sui mille problemi da affrontare, ha aggiunto che c'è un «primato dei valori essenziali: libertà, giustizia, solidarietà». Auguri all'Italia, presidente, che «libertà, giustizia, solidarietà» non restino le belle parole di una giornata particolare per la quale il capo del governo uscente ha suggerito ai suoi di stare composti come ad un funerale. Come inizio non c'è male considerato che il nuovo inquilino del Colle è un partenopeo legato ai gesti antijettatura. Ha detto Napolitano che occorre «individuare i temi di necessaria e possibile limpida convergenza nell'interesse generale». L'aggettivo «limpido» non è di poco conto. Temiamo che resti un brillante esercizio di retorica, come dimostra la corsa alle poltrone di governo che poi provocherà spartizioni di posti di potere niente affatto limpide o fin troppo limpide in quanto inevitabilmente evidenti.
Napolitano lo scorso luglio denunciò al Consiglio nazionale diessino che in Calabria e in Campania i governi regionali di Centro-sinistra avevano fatto la miracolosa moltiplicazione degli incarichi amministrativi ed avevano con ciò prodotto «sconcerti e critiche nell'opinione pubblica».

17 maggio 2006

Un delitto a Rimini

Conoscevo il 'ragazzo' ucciso qui a Rimini: 33 anni fa era stato mio alunno in prima e seconda Ragioneria.
Era molto studioso. Si era avviato verso la riflessione filosofico-teologica. Leggeva sempre. Lo incontravo in libreria tra gli scaffali dedicati a questi temi. L'obesità era conseguente al suo essersi fatto prendere da un'attenzione particolare (non dico fissazione) verso il fatto religioso. Non sarebbe mai stato capace di far male ad una mosca. Il problema per me era più serio di quello della semplice obesità. Vestiva come una specie di frate. Guardate la foto d'agenzia, per averne conferma.
La notizia della sua uccisione mi ha profondamente addolorato. Era delicato e gentile. Sospetto che fosse incapace di realizzare una relazione con una donna, a proposito di quanto detto circa il trauma provocato dalla scomparsa di una sua amica.
L'ipotesi della rapina non sta in piedi. Al massimo poteva avere in tasca cinque euro. Lasciamolo nel mistero di una notte tragica, in mezzo ai tanti fantasmi di questa città ricca (dati Sole-24 Ore) ma piena di 'probleni', e di tanti giri strani. E di gente che ha bontà d'animo come lui e che finisce per 'straniarsi' per quei labirinti che sono nelle nostre menti.
Si diceva una volta: che la terra ti sia leggera. Lo auguro anche a te, vecchio ragazzo della mia vecchia classe di 33 anni fa..

12 maggio 2006

Quando Mariù Pascoli nel 1938 scrive al duce

Per aiutare amici ebraici inventa uno Zvanì razzista

Il 21 ottobre 1938, anno XVI E. F., Maria Pascoli scrive a Benito Mussolini: «Duce! Esaudite questa mia preghiera per amore degli esseri che vi sono più cari». La sorella del poeta di San Mauro invoca: «Includete nella categoria degli ebrei privilegiati la famiglia di Angiolo Orvieto di Firenze…». Angiolo Orvieto (1869-1968) era un intellettuale e poeta che un anno prima aveva pubblicato un volume su «Pascoli e i suoi amici ai tempi della ‘Vita Nuova’», la quale era una rivista (1889-91) antipositivista alla cui fondazione Orvieto aveva partecipato, ed alla quale avevano collaborato Zvanì e D’Annunzio.
Aggiunge Maria Pascoli: «Fate, Duce, questa grazia anche pensando che Angiolo era molto amico del mio Giovannino e del Pistelli i quali, se oggi fossero qui – pur non essendo affatto teneri per la razza ebraica – intercederebbero per lui». Il padre scolopio Ermenegildo Pistelli (1862-1927) fu filologo famoso per studi e ricerche di papiri in Egitto.
L’epistola di Mariù, ritrovata dalla storica Paola Frandini, è stata pubblicata, per concessione dell’Archivio di Stato, dal «Corriere della Sera» (11 marzo 2006) a corredo di un articolo di Paolo Fallai che nel sottotitolo riassume l’argomento: «Lettere disperate a Mussolini all’epoca delle leggi razziali».
Dunque, secondo Mariù, Giovannino non fu «tenero» verso la «razza ebraica». Lei, la sorella di un socialista (ha scritto nel 2005 Maria Santini in «Candida soror», p. 272), da «tipica borghese del suo tempo, non particolarmente acuta o portata al sociale», finì tra i sostenitori acritici del fascismo da cui «ottenne molti favori». Forse (anzi, indubbiamente) nel messaggio di Mariù al duce c’è soltanto il tentativo (rivelatosi poi vano) di catturarne la benevolenza a fin di bene e senza andare troppo per il sottile, anzi tradendo la verità storica che risulta da testi di eminenti studiosi. Ne citiamo due, presenti nel volume sammaurese curato da G. M. Gori su «Pascoli socialista» (2003).
Marino Biondi osserva che Pascoli ha una posizione politica che ritiene necessario il dialogo pietoso, la supremazia dell’amore e del cuore al posto della coercizione e della guerra (p. 116). Renato Barilli spiega che in Pascoli la Bibbia degli Ebrei e dei Cristiani fu superiore all’insegnamento morale laico di Socrate, Platone, Orazio e Virgilio perché predicò la fratellanza universale (p. 164).
Mariù e Benito Mussolini si erano incontrati il 21 settembre 1924 a Rimini e nel maggio 1930 a Castelvecchio. A Rimini quel giorno il poeta fu commemorato da Alfredo Panzini. Per l’occasione in un periodico locale apparve un retorico articolo di don Domenico Garattoni che arruolava Zvanì tra i precursori del fascismo. In quel 1924 il 10 giugno era stato rapito Giacomo Matteotti, il cui cadavere fu ritrovato il 16 agosto.
La lettera di Maria Pascoli, come ho anticipato, non produsse alcun effetto. Scrive Fallai che le fu inviata una «sprezzante risposta», ovvero che l’esame della famiglia Orvieto era già stato «devoluto all’apposita commissione».
Antonio Montanari

10 maggio 2006

Ingorgo Napolitano

Con gioia esplosiva Cesara Buonamici lunedì 8 maggio alle 20 annunzia dal Tg5 che per il Quirinale anche il Centro-destra ha scelto Giorgio Napolitano. La fonte è il suo direttore Carlo Rossella. La smentita viene dai fatti. La sera dopo al direttore del Tg1 l'on. Fini confida: «Caro Mimun, chissà come sarà arrabbiato Rossella per quella notizia che gli ha dato il suo principale... informatore». Il velenoso rovesciamento grammaticale dell’aggettivo «principale» in sostantivo abbassa Rossella al rango di voce del padrone. La vicenda della presidenza della Repubblica si è svolta nella particolare congiuntura dell’ingorgo istituzionale con elezioni politiche, formazione del governo, prossimo referendum per le riforme costituzionali che riguardano pure le funzioni dello stesso capo dello Stato.
Le urne d’aprile hanno dato una maggioranza (per quanto invisibile) all’opposizione con la riforma elettorale voluta per sé dal Centro-destra. Ciampi ha imposto la scelta del successore prima della formazione del governo, rinunciando alle lusinghe del secondo mandato. La sua riconferma e magari la nomina di Prodi prima del voto per il Quirinale avrebbe confusamente accontentato tutti. Il conclamato trionfo dei moderati ad aprile ha portato Bertinotti a presiedere la Camera e Napolitano sul Colle. Lo spostamento a Sinistra (confermato timidamente con Marini al Senato) crea per il governo una situazione matematica anomala. D’Alema piaceva a rametti del Centro-destra (Feltri, Ferrara…) soprattutto come burla e tranello per Prodi. Il quale ripensando ad otto anni fa è restato soddisfatto dell’accantonamento di D’Alema grazie a Rutelli, Boselli, Fini e Casini.
Napolitano ripropone la storia di un partito che dal credo stalinista è passato a quello dei riformisti, un tempo vituperati e bollati come «fascisti» dalle Botteghe (non per nulla) Oscure. È una storia però non conclusa se i Ds per il Colle non hanno accettato Giuliano Amato che è vicepresidente del gruppo socialista europeo di cui essi stessi fanno parte. «Dal Pci al socialismo europeo» non a caso è il titolo dell’autobiografia di Napolitano.
Il problema del riformismo sarà sul tavolo ancora per anni, tra le astuzie logiche di Bertinotti (fascinoso leader da salotto), la sconfitta di Fassino (grande elettore di D’Alema), le ire di Berlusconi contro Casini e Fini, e le sue promesse rivoluzionare di non pagare le tasse con un comunista sul Colle.

01 maggio 2006

Galbraith non abita qui

Il suo ultimo libro (2004) s’intitola «L’economia delle truffe»: analizza i grandi scandali finanziari americani. Potrebbe avere un’appendice italiana. L’autore, John Kennet Galbraith, è scomparso a 97 anni. Ne ha dedicati 70 all’insegnamento. Il suo volume più celebre per quelli della mia generazione e soprattutto per i non specialisti come il sottoscritto, è del 1958: «La società opulenta». Vi denuncia i danni prodotti dalle ricchezze individuali che aumentano la distanza tra il potere di pochi ed i bisogni di tutti. Sei anni prima, con un saggio sul capitalismo americano, aveva sostenuto: i sindacati sono necessari per controbilanciare i gruppi economici predominanti.
La società opulenta, pensava Galbraith, non trasforma in virtù sociali i vizi individuali della cupidigia e dell’avarizia. Per lui il libero mercato non garantisce il migliore dei mondi possibili. Non era marxista ma «liberal», come dicono in America. Era consapevole (lo spiegava con calcolata ironia) che nel capitalismo l’uomo sfrutta l’uomo, e che nel socialismo avviene il contrario. Un antico politico del Pci forse lo imitava sostenendo che il comunismo è il capitalismo gestito dai comunisti.
Usava formule di «irriguardosa deferenza», ha scritto Giorgio Ruffolo su «Repubblica» (primo maggio 2006), quelle che mandano più in bestia la gente. Seguiva l’orma del padre che quando teneva comizi in campagna saliva sul deposito di letame di una fattoria e si scusava di parlare «dalla piattaforma dei conservatori». I quali ricambiavano le cortesie. Una gran dama fingendo di non riconoscerlo gli disse che lui portava un nome somigliante a quel figlio di puttana che lavorava per J. F. Kennedy.
Lo Stato per Galbraith doveva ridistribuire le ricchezze ed alleggerire le ingiustizie. Idee che in Italia il presidente-operaio Berlusconi avrebbe definito comuniste. Per Galbraith l’interesse pubblico deve prevalere su quelli particolari, affidandosi al gioco della politica e non a quello degli egoismi.
Ed in politica (cito ancora Ruffolo) occorre affidarsi ad un leader che «deve cercare il consenso non abbassandosi agli umori istintuali della massa, ma suscitando in quella il bisogno di ideali». Un siffatto leader democratico non è amato perché è come noi, ma perché è migliore di noi.
In America dici «liberal» e sai cos’è. In Italia ci sono quelli di destra, centro-destra, centro, centro-sinistra, sinistra. Sono uniti dal sistema. Cioè dal desiderio comune di essere sistemati.