26 giugno 2006

Ha vinto la democrazia

Chi ha vinto? Ha vinto la democrazia partecipata, non quella arruffona dei capipopolo, neppure quella arzigogolata delle segreterie politiche dei partiti. Siamo andati a votare in tanti per giudicare la riforma della Costituzione. Non abbiamo rinunciato al diritto della scheda ed al dovere di recarci ai seggi. Il precedente governo non ha voluto che ci fosse il «giorno delle elezioni» (lo dico in italiano, loro lo dicevano in inglese). Poi i suoi esponenti finiti all'opposizione si sono lamentati delle continue chiamate alle urne. Ha vinto la consapevolezza che il popolo è sovrano, anche se le cronache hanno fatto di tutto per confondere le idee alla gente. L'attuale opposizione alla fine su qualcosa è riuscita a convincere anche il presente governo: si ridurranno (in futuro) i numeri di senatori e deputati. Calcolatrice alla mano, non servirà a nulla. Lo dicono gli esperti.
L'attenzione dell'elettorato è stata distolta da scandali a ripetizione (dal calcio alla sanità) e dai mondiali del pallone. Ma alla fine la gente non si è fatta distrarre. La partecipazione a questo voto dovrebbe spingere tutti, vincitori e vinti, ad essere non suscettibili come le fanciulle che vanno in tivù sospinte da qualche protettore, e poi si mettono a strillare: giù le mani dal mio onore, mi sono fatta strada soltanto con le mie qualità artistiche. La vicenda delle vallette di partito ha visto alla ribalta un po' mesta ed un po' carogna personaggi di tutti i tipi. Anche uno che avrebbe potuto essere il re di quest'Italia che suo nonno aveva contribuito a rovinare. Il contorno della regal compagnia era ridicolo, non squallido, come si voleva far diventare all'insegna del tutti siamo come loro.
Anche il voto di questo referendum ha dimostrato che essere furbi in politica non è né una colpa né un merito, è semplicemente una disgrazia collettiva che dovremmo evitarci. La gente ha voluto fare sentire la propria voce, come alle primarie del Centro-sinistra. E lo avrebbe fatto con consapevolezza anche per il Centro-destra, se le avessero organizzate. Una democrazia si regge sul confronto. Che si fa a voce alta o bassa, ma si fa. L'Italia repubblicana si era avviata sulla strada del ridicolo, con qualcuno che pretendeva d'instaurare una specie di monarchia mascherata non prevista dalla Costituzione, mediante la figura di un primo ministro tipo amministratore delegato che odia le persone normali e tratta il mondo come un ininterrotto spettacolo comico.

18 giugno 2006

Cittadino Savoia

Confesso la mia ignoranza. Non sapevo che ci fosse un re d’Italia. Conosco una repubblica che proprio domenica 25 giugno va distratta alle urne per fare il tagliando alla Costituzione. Ignoravo che la monarchia avesse un capo riconosciuto come tale da un deputato dell’opposizione. Il cittadino Vittorio Emanuele Savoia è stato tradotto in carcere con una serie di accuse dalle quali gli auguriamo possa difendersi provando una limpida innocenza. Speriamo che resti a suo disonore soltanto l’espressione usata a proposito dei cittadini sardi, discendenti di quella terra che dette il nome agli antenati del nostro. Essi, secondo lui, tra le altre cose puzzano come le capre.
Il suo arresto ha provocato utili reazioni nei nostri quotidiani e negli ambienti governativi. La necessità di una Giustizia rapida è stata affermata da Piero Ostellino sul Corriere della Sera e dal ministro Clemente Mastella che ad essa presiede. Non per colpa loro fortunatamente ma per mia disattenzione, non ho letto che la Giustizia dev’essere rapida pure per tutti. Il che al momento non succede e ben sappiamo con quali conseguenze. Ostellino precisa che non dobbiamo salvaguardare l’immagine di un principe ma la dignità di un uomo. Per cui si potrebbe amaramente concludere che la dignità è citata in virtù dell’immagine, dato che appunto la lentezza oscena della Giustizia distrugge l’immagine di chi non ha difensori pubblici di una dignità aristocratica.
Sulla Stampa Carlo Rossella, direttore del TG5, invoca giustizia in nome di una simpatia della persona che ha la battuta pronta e ingenua, l’aria svagata, un’eleganza naturale ed un ottimismo «a volte confortato» da «qualche fresco bicchiere» di vino. Del quale l’illustre giornalista cita il nome che immaginiamo adatto al lignaggio del consumatore e alla raffinatezza del cronista che ci istruisce.
Tra i difensori del Savoia c’è pure un nobile di cui ricordiamo l’azzardata teoria, esposta al salotto televisivo di Giuliano Ferrara: «Nella civiltà contadina, la donna era la regina della casa». Forse ha letto la frase in qualche pensierino dei baci Perugina, forse ha frainteso qualche antico testo ereditato da illustri antenati, o forse non ha capito granché né del mondo di ieri né di quello di oggi. Se fosse vera quest’ultima ipotesi, dovrebbero affidargli una rubrica assieme a Bruno Vespa che di recente ha invitato il cittadino Savoia, chiamandolo altezza. Totò avrebbe risposto: un metro e 90.

11 giugno 2006

Certi amici

Come quarant’anni fa dicevano in Cina, lunga vita al presidente. Nonostante le pessimistiche previsioni di Eugenio Scalfari. Secondo cui il nuovo governo non ha mano ferma, non ha un pensiero illuminato, il quadro è desolante, il consenso popolare in calo. Ma Prodi è un uomo fortunato, e Scalfari questo non lo vuole ammettere. A Santa Margherita Ligure al convegno dei giovani imprenditori l’incontro fra D’Alema e Fini ha fotografato lo scenario prossimo futuro. Non è un oroscopo, ma il calendario delle scadenze. Come per i surgelati. Fra due anni Montezemolo lascia Confindustria. Intanto Berlusconi si scalda in panchina. Entrerà al suo posto. Fini potrà guidare così la coalizione di Centro-destra pensando alle elezioni del 2011, alle quali arrivare come candidato per palazzo Chigi. Nel frattempo i cinque anni di legislatura avranno reso Prodi contento e cotto al punto da lasciar mano libera a D’Alema. Che finora per il bene della coalizione si è sacrificato rinunciando a presidenza del Senato e della Repubblica. Ma che alla fine non andrà in esilio in un’isola deserta del Pacifico indossando un serafico saio.
A Santa Margherita (nel senso di località ligure), Fini ha confidato: «Ho 54 anni. Sembra che a 50 in politica non si sia ancora maturi per assumere delle responsabilità». I giovani (ha aggiunto, sottintendendo i «non decrepiti») sono esclusi dal potere. A 59 anni nel 2011 spera di esser considerato pronto per la scalata alla presidenza del Consiglio. Allora, come si vede, il duello non sarà più tra Prodi e Berlusconi ma tra D’Alema e Fini, tenuti ora a frollare in una sotterranea alleanza fra il Professore ed il capo di Alleanza Nazionale che mirano soltanto a liberarsi del Cavaliere. Il quale, intervenendo sabato 10 allo spettacolo della scuola di ballo della sorella Maria Antonietta, ha confidato di essere stanco perché la vita dell’oppositore è troppo dura.
Scalfari ha elencato le risse di bottega del governo Prodi: spinte centrifughe, gara alla visibilità, corsa agli incarichi. Ma succede anche altrove. La Grande Coalizione tedesca è piena di contraddizioni, cala nei sondaggi (come Prodi pensa a nuove tasse). Non ha però l’on. Sergio De Gregorio (lista Di Pietro) eletto contro gli accordi alla presidenza della commissione Difesa per evitare che vi andasse una signora pacifista di 82 anni, Lidia Menapace. De Gregorio ammette: ho amici nei servizi segreti, se è reato me lo dicano. Anzi, certi amici aiutano.

07 giugno 2006

Ricordi del dopoguerra al Valturio

Il dramma incompreso dei reduci, una cinghia per cravatta

I miei personali ricordi di scuola hanno coinvolto numerosi lettori. I quali si sono messi in contatto con il sottoscritto, per raccontare altre cose sul «Valturio», aggiungere particolari e soprattutto aprire finestre nuove rispetto al mio discorso. Hanno pure esposto fatti legati a momenti molto più drammatici degli anni Sessanta su cui ho scritto.
Ho ascoltato il resoconto di un ritorno dalla guerra, di una famiglia da mantenere, di un impegno di lavoro da soddisfare quotidianamente, e di un'interrogazione per l'esame in cui era in gioco il diploma necessario a quel lavoro, e quindi a quella famiglia, ed alla sua sopravvivenza per riassumere tutto in una sola parola.
La magnanimità del docente fa realizzare una cortina di filo spinato rispetto all'esaminato, tende un tranello di inaudita eleganza. Si chiede al giovane quale opera avesse scritto l'amico napoletano del Leopardi. Nessuna risposta. Nessuna promozione. Segue un anno di frequenza obbligatoria. Come il lavoro che manteneva la famiglia di quel reduce di guerra.
Confesso: so chi è stato Antonio Ranieri (di lui si tratta), ma non ho mai appreso che cosa avesse scritto, non ce lo hanno mai chiesto nei durissimi interrogatori a cui Mario Saccenti, assistente di Ezio Raimondi al Magistero di Bologna, ci sottoponeva con un sorrisino perfido fatto di richieste mnemoniche, senza preoccupazione alcuna sul fatto che avessimo o no digerito quanto studiato. Saccenti (un nome, un destino) conosceva a memoria il manuale di Letteratura italiana del Sapegno. Pretendeva che noi gli esponessimo pari pari la nostra sapienza (ovvero tutto il Sapegno) per confermare la sua. Nessuno scarto era concesso nel discorso, altrimenti lui ci rimetteva sul binario «giusto» ordinandoci: «Ricominci dal principio». Ovvero dal fatto che il tal poeta era nato, lì, là o lassù. Anno Domini... etc.
Fortunatamente si poteva respirare e ragionare quando era il momento di passare «sotto» Raimondi per il corso istituzionale, ovvero per la parte fondamentale dell'esame. Che dava soddisfazione a chi se la meritava usando non soltanto i neuroni (spero siano loro) della memoria, ma anche un poco di capacità intellettiva (naturale e non gasata… come quella dei Saccenti di nome e di fatto).
Che cosa scrisse Antonio Ranieri? Per questo esistono le enciclopedie, non la cultura. Quindi lasciamo tutto nella nebbia della mia personale ignoranza che per fortuna non deve più fare i conti con quella altrui, essendo non più tempo d'esami scolastici (gli altri non finiscono mai...).
E poi, da un messaggio giuntomi via Internet, salta fuori il vezzo se non il vizio (stessa scuola, stesso immediato dopoguerra) di spiegare per un mese, e poi d’interrogare. Una sola domanda, o la va o la spacca
Infine, la storia della cravatta obbligatoria al «Valturio» del preside Remigio Pian. Una madre risolse il problema con il buon senso delle donne e la costrizione della miseria. Disse al figlio di legarsi al collo la cintura dei calzoni. Soluzione pratica per situazione drammatica. Mancavano i soldi per il pane, figurarci se c'erano quelli per la cravatta.
Antonio Montanari

04 giugno 2006

La Repubblica del 2 giugno

Abbiamo festeggiato la sessantesima ricorrenza del 2 giugno 1946. Il dramma dei giorni successivi è finito nel comodo dimenticatoio dei posteri che non vogliono grane. Figurarsi, la televisione di Stato ha mobilitato Fabrizio Frizzi.
Alle 18 del 10 giugno 1946, i venti giudici della Cassazione rimandano ad altra adunanza il giudizio definitivo sul referendum istituzionale del 2 giugno, cioè la scelta tra monarchia e repubblica. Dal 12 sera il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi esercita «le funzioni» ma non i poteri di capo dello Stato. Il 13 il re Umberto II ha la buona idea di andarsene dall'Italia. La monarchia era rimasta sepolta sotto le macerie della guerra voluta da Mussolini e supinamente accettata da «Sciaboletta», Vittorio Emanuele III. Il giorno prima i monarchici del Sud hanno fatto 11 morti. I dati definitivi del referendum arrivano il 18 giugno. Per 453.506 voti vince la repubblica (quasi un milione e mezzo quelli nulli). Indro Montanelli definisce «incolpevole» Umberto II. Non so. Di certo inetto. Dette miglior prova sua moglie Maria José.
Un ascoltatore di Primapagina (Radiotre) ha detto che metà degli italiani ha confuso il 2 giugno con il 4 novembre. Ha ragione. Le sfilate armate ai Fori imperiali non possono recuperare sofferenze, tensioni e sogni di quei giorni. E rappresentare il senso della Repubblica e della Costituzione. Ho un bisnonno di Treviso che combatté nel Risorgimento da ufficiale. Quindi, nulla di personale con la categoria militare. Anche sul 4 novembre ci sarebbe qualcosa da dire. La festa della Vittoria è stata trasformata per motivi europeistici in quella delle forze armate. Ma pure per le forze armate occorrerebbe elencare i dolori a cui furono mandate incontro per colpa degli alti comandi nel 1915-18, della storia dell'armistizio fatto in segreto e poi annunciato dai vecchi nemici e nuovi alleati la sera dell'8 settembre 1943 e della fuga del re da Roma il 9. L'ora delle indecisioni era suonata.
Un'altra cosa non capisco. Nella Repubblica fondata sul lavoro, il 2 giugno si fanno cavalieri e grand'ufficiali un'infinità di persone che spesso altro titolo non hanno se non l'amicizia con questo o quel politico di turno. Non ricordo di aver visto mai decorato un lavoratore ammalatosi in fabbrica perché non erano state rispettate le leggi di tutela della salute. O deceduto per quelle che una volta si chiamavano le «morti bianche», ovvero incidenti sul lavoro.