01 maggio 2006

Galbraith non abita qui

Il suo ultimo libro (2004) s’intitola «L’economia delle truffe»: analizza i grandi scandali finanziari americani. Potrebbe avere un’appendice italiana. L’autore, John Kennet Galbraith, è scomparso a 97 anni. Ne ha dedicati 70 all’insegnamento. Il suo volume più celebre per quelli della mia generazione e soprattutto per i non specialisti come il sottoscritto, è del 1958: «La società opulenta». Vi denuncia i danni prodotti dalle ricchezze individuali che aumentano la distanza tra il potere di pochi ed i bisogni di tutti. Sei anni prima, con un saggio sul capitalismo americano, aveva sostenuto: i sindacati sono necessari per controbilanciare i gruppi economici predominanti.
La società opulenta, pensava Galbraith, non trasforma in virtù sociali i vizi individuali della cupidigia e dell’avarizia. Per lui il libero mercato non garantisce il migliore dei mondi possibili. Non era marxista ma «liberal», come dicono in America. Era consapevole (lo spiegava con calcolata ironia) che nel capitalismo l’uomo sfrutta l’uomo, e che nel socialismo avviene il contrario. Un antico politico del Pci forse lo imitava sostenendo che il comunismo è il capitalismo gestito dai comunisti.
Usava formule di «irriguardosa deferenza», ha scritto Giorgio Ruffolo su «Repubblica» (primo maggio 2006), quelle che mandano più in bestia la gente. Seguiva l’orma del padre che quando teneva comizi in campagna saliva sul deposito di letame di una fattoria e si scusava di parlare «dalla piattaforma dei conservatori». I quali ricambiavano le cortesie. Una gran dama fingendo di non riconoscerlo gli disse che lui portava un nome somigliante a quel figlio di puttana che lavorava per J. F. Kennedy.
Lo Stato per Galbraith doveva ridistribuire le ricchezze ed alleggerire le ingiustizie. Idee che in Italia il presidente-operaio Berlusconi avrebbe definito comuniste. Per Galbraith l’interesse pubblico deve prevalere su quelli particolari, affidandosi al gioco della politica e non a quello degli egoismi.
Ed in politica (cito ancora Ruffolo) occorre affidarsi ad un leader che «deve cercare il consenso non abbassandosi agli umori istintuali della massa, ma suscitando in quella il bisogno di ideali». Un siffatto leader democratico non è amato perché è come noi, ma perché è migliore di noi.
In America dici «liberal» e sai cos’è. In Italia ci sono quelli di destra, centro-destra, centro, centro-sinistra, sinistra. Sono uniti dal sistema. Cioè dal desiderio comune di essere sistemati.