29 marzo 2006

Prima biblioteca pubblica, 1400

A San Francesco, la biblioteca universitaria
Ritorno all'antico: nel 1400 vi fu quella dei Malatesti
che è la prima biblioteca pubblica italiana

L'antico convento di San Francesco a Rimini, a fianco del Tempio malatestiano, diventerà la Biblioteca Universitaria di Rimini (BUR, immaginiamo...). È un ritorno alle origini. In quei locali confluirono non soltanto i libri dei frati. Il progetto di costituire una biblioteca aperta la pubblico e utile soprattutto agli studenti poveri, è testimoniato nel 1430 per iniziativa di Galeotto Roberto Malatesti che segue una intenzione dello zio Carlo (morto l'anno prima). Sigismondo, lo «splendido» Sigismondo (così lo chiama Maria Bellonci), arricchisce la biblioteca con «moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline». Così testimonia Roberto Valturio (che alla stessa biblioteca lascia i suoi volumi). Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi che restano quali tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza aperta all’ascolto di tutte le voci, da Aristotele a Cicerone, da Aulo Gellio al Lucrezio del «De rerum natura», da Seneca a sant’Agostino, sino a Diogene Laerzio ed alle sue «Vitae» degli antichi filosofi.
Una biblioteca di famiglia dei Malatesti nel XIV secolo è attestata da una lettera di Francesco Petrarca a Pandolfo («Seniles», XIII, 10). Anche il giureconsulto Rainero Meliorati lascia (1499) i propri testi ai frati di Rimini, mentre vanno (1474) a quelli di Cesena le opere possedute dal medico riminese Giovanni Di Marco (come ringraziamento per un vitalizio ricevuto dal signore di quella città, da lui curato).
Una iscrizione del 1490 (e non 1420 come precisa Antonio Bianchi, 1784-1840, da cui attingiamo queste notizie), ricorda il trasferimento della biblioteca francescana al piano superiore del convento da quello a terra «pregiudizievole a materiali sì fatti» (Angelo Battaglini, 1794).
Nel secolo XVII, aggiunge Bianchi, «della preziosa libreria, che i Malatesti, per conservarla ad utile pubblico, avevano dato in custodia ai frati di San Francesco», restano soltanto 400 volumi per la maggior parte manoscritti. Questo «rimasuglio» va perduto secondo monsignor Giacomo Villani (1605-1690), perché quelle carte preziose finiscono in mano ai salumai («deinde in manus salsamentariorum mea aetate pervenisse satis constat»). Federico Sartoni (1730-86), come riferisce Luigi Tonini, sostiene invece che i frati vendettero la libreria alla famiglia romana dei Cesi, alla quale appartengono i fratelli Angelo (vescovo di Rimini dal 1627 al 1646) e Federico, fondatore dell'Accademia dei Lincei nel 1603.
Nel convento di San Francesco nel 1923 fu trasferita dalla biblioteca Gambalunga la galleria archeologica (che s'affiancava a materiale già collocato nel 1908, scrive P. G. Pasini). Nel 1924 toccò alla pinacoteca. Nel 1938 fu aperto il nuovo museo archeologico ampliato nel 1938 con quello medievale. L'ingresso era nel chiostro a sinistra del Tempio. A. Magini (1934) in una guida della città spiega che alla pinacoteca si accedeva «per un ampio salone settecentesco preceduto da un elegante atrio ad arcate».
Infine, va detto che se la biblioteca Gambalunga (1619) è la terza in Italia ad essere pubblica dopo l’Ambrosiana di Milano (1609) e l’Angelica di Roma (1614), a quella di Francescani e Malatesti del XV secolo spetterebbe il merito di essere stata la prima in assoluto.
Antonio Montanari

26 marzo 2006

Bartali

La domanda (in apparenza) inquietante resiste dal 1949. Nasce da una foto sportiva, Tour de France: Bartali, Coppi ed una borraccia. L'anno prima Gino Bartali aveva vinto la corsa arrivando a Parigi in maglia gialla, dopo averla strappata dalle spalle di Louison Bobet. Dissero qui da noi che aveva salvato la Patria in pericolo dopo l'attentato romano a Palmiro Togliatti da parte di Antonio Pallante, uno studente universitario venticinquenne che si dichiarò iscritto al partito liberale (comunicato Ansa del 14 luglio 1948, ore 13). Seguirono incidenti in varie parti d'Italia con alcuni morti. La foto del 1949 mostra il passaggio d'una borraccia fra i due ciclisti. Ancor oggi i giornali s'interrogano: chi la passò a chi? La risposta c'è già (da sempre) in un filmato della «Settimana Incom» dello stesso Tour: Fausto Coppi invoca un aiuto dal rivale che gli offre l'acqua per dissetarsi. Tutto qui.

Paolo Conte ha ricordato «quel naso triste da italiano allegro» che passava tra i francesi che (censuriamo) s'adiravano. Allora come oggi, i francesi se la prendono con noi: è accaduto a Bruxelles il 25 marzo. Pure qui c'è di mezzo una foto che dice poco o nulla: il nostro presidente del Consiglio scherza amichevolmente con il capo dello Stato francese Jacques Chirac. Due ore dopo, chiuso il vertice europeo, Chirac «è esploso», come ha scritto il corrispondente del giornale di Torino di proprietà della nota famiglia sovversiva Agnelli: «In sette interminabili minuti di frasi avvelenate, di allusioni e di toni forti», ha accusato in pratica l'Italia (a proposito dell'offerta Enel sulla società Suez) di essere meno liberista della Francia.

Non possiamo dire, per rispettare la par condicio, se ha ragione l'Italia oppure la Francia. Né possiamo onestamente celare il nostro pensiero: anche noi, come Paolo Conte in quella canzone, stiamo ad aspettare Bartali con «quel naso triste da italiano allegro». Ed aggiungiamo una postilla ricavandola da una brevissima nota che lo stesso Conte ha pubblicato sulla «Stampa» in prima pagina domenica 26 marzo 2006, in occasione dell'inizio del film televisivo su Gino Bartali: per parlare «di esistenza umana» e non di sport, Conte cercava allora «una di quelle facce italiane di gente normale a cavallo di una bici», con «un bel nasone comune, nostrano, sincero». Anche noi, convinti bartaliani di un tempo, ameremmo oggi vedere facce di gente normale a piedi o in bici, con nasi sinceri.

22 marzo 2006

Rimini 1919-1945

Il ruolo politico di Rimini in pace e guerra, 1919-45
Mussolini dopo il delitto Matteotti: discorso in tre versioni

Alla «Romagna tra fascismo e antifascismo, 1919-1945» è dedicato un volume curato da Patrizia Dogliani (Clueb, Bologna), in cui si raccolgono vari contributi nati all’interno degli Istituti di Storia contemporanea e della Resistenza delle province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini. A proposito di Rimini, la Dogliani osserva che la nostra area «almeno sino alla guerra» ebbe una sua specificità ed anche una certa marginalità rispetto al resto della Romagna, sia quando il fascismo stava nascendo sia quando era già al potere.
Dal punto di vista della strategia politica, il territorio riminese negli anni Venti fu considerato una «testa di ponte» per far avanzare lo squadrismo in Romagna e Marche. Per il regime divenne poi la vetrina delle colonie marine per l’infanzia, e la spiaggia della nuova borghesia in camicia nera, più popolare e moderna rispetto alla aristocratica Viareggio dove soggiornavano i Ciano, mentre la famiglia Mussolini aveva scelto la vicina Riccione. Con la guerra la nostra zona dalla costa alla collina è uno dei principali teatri del conflitto. Infine, conclude la Dogliani, «da Rimini parte, e non solo in ordine cronologico, la ricostruzione della Romagna con tutte le sue difficoltà nelle scelte e nei tempi».

Bilancio critico
di Casadei
Maurizio Casadei, studioso da vari decenni specializzatosi in queste tematiche (recente è anche un suo altro testo, «La liberazione di San Clemente»), affronta questi aspetti della vita riminese con un lungo saggio (p. 99-192) a cui hanno collaborato Davide Bagnaresi e Gianluca Corbucci. Alla ricostruzione storica accurata che sintetizza in maniera esemplarmente chiara il succedersi degli avvenimenti lungo l’intero arco di tempo preso in considerazione, fa sèguito l’analisi storiografica che compila un bilancio molto preciso degli studi e dei testi esistenti, con particolare attenzione alle lacune tuttora riscontrabili. Citeremo ad esempio quanto si legge a proposito delle carenze relative in generale ai risultati elettorali, al radicamento nel territorio ed alla rappresentatività sociale dei partiti. Oppure ciò che riguarda la formazione dei gruppi dirigenti sindacali e politici, ed anche la crisi del socialismo e le origini del fascismo riminese.
Casadei scrive al proposito alcune pagine che andrebbero prese come linee-guida per il lavoro che gli appositi enti (tra cui lo stesso Istituto storico di Rimini) dovrebbero programmare non affidandosi al caso (ovvero allo spirito di ricerca individuale) ma appunto ad un progetto che portasse a colmare i vuoti denunciati dalla sua acuta e rigorosa analisi storiografica. Il fatto è che Rimini, di questi vuoti in campo storiografico soffre da lungo tempo, e non soltanto a proposito del periodo preso in considerazione dall’amico Casadei: basti pensare alla mancata valorizzazione dell’immenso patrimonio che documenta la storia culturale della nostra città nei secoli passati. Ma al proposito non procediamo oltre, per non andar fuori del seminato, e quindi trascurando l’esame del volume che abbiamo sotto gli occhi.

In attesa
di un ordine
Casadei ricorda, a proposito del ruolo politico di Rimini, quanto accaduto il 21 settembre 1924. Tre mesi dopo il delitto Matteotti, «Mussolini impose una svolta alla crisi nazionale proprio» nella nostra città, partecipando alle celebrazioni pascoliane «con un discorso atteso da una folla corsa da mezza Italia». Casadei rimanda ad un testo dell’avvocato Oreste Cavallari che in tre volumi raccontò le vicende locali fra 1910 e 1946. Nel secondo di essi, intitolato «All’arme, siam fascisti» (1977), il grande invalido di guerra Cavallari (che non fu un «nostalgico», ma esponente di spicco del repubblicanesimo storico romagnolo), osserva che quella folla era giunta a Rimini «con la speranza di ricevere l’ordine di scatenarsi». Mussolini dette quell’ordine?
Cavallari riporta due citazioni che (non per colpa sua ovviamente), si contraddicono fra loro. La prima: «Voi non avete le mani legate, non c’è bisogno di slegarvele; le mani legate le ho io, e basta!» (testo ripreso dall’«Opera omnia» di Mussolini, che rinvia a quello del «Popolo d’Italia»). La seconda citazione (dal «Popolo di Romagna») è questa: «Voi avete le mani legate, non c’è bisogno di slegarle; le mani slegate le ho io, e basta!». Osservava sconsolato Cavallari: «Allora il passo è da interpretare tutt’al contrario: comando solo io, e basta! Ubbidite e non fate sciocchezze». Come ho dimostrato nella recente «Storia di Rimini» edita da Bruno Ghigi, nel capitolo conclusivo da me curato sul periodo 1859-2004 (pp. 286-287), esiste pure una terza versione di quel discorso di Mussolini: il foglio locale «La Prora» scrive che le camicie nere «non» hanno le mani legate al pari del duce. Il 13 dicembre il bollettino del Fascio riminese «Testa di Ponte», toglierà ogni dubbio, invitando Mussolini a ricorrere alla forza: «Dio ve l’ha concessa, usatela!».

Silenzio
degli storici
Forse la contraddizione rilevata già da Cavallari tra le versioni dei due «Popoli» (intesi come testate di giornali), quello d’Italia e quello di Romagna, può aver portato gli storici a non dare eccessivo peso alle parole riminesi di Mussolini. Giorgio Candeloro nel nono volume (1981) della sua storia d’Italia (p. 84) ricorda che il 9 settembre una delegazione di industriali chiese a Mussolini di normalizzare la situazione del Paese ristabilendo l’ordine costituzionale. Invece nella classica biografia composta da Laura Fermi (1963), è citata la minaccia pronunciata da Mussolini ai minatori di Monte Amiata contro l’opposizione: «Il giorno in cui [i suoi membri] uscissero dalla vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro ne faremo lo strame per gli accampamenti delle camicie nere» (p. 254). Neppure Renzo De Felice in «Mussolini il fascista» (1995) parla di Rimini. Ricorda pure lui il discorso di Monte Amiata («dal tono minaccioso… fece molto scalpore»), aggiungendo che un lungo viaggio del duce in molte località «non valse a placare le acque» (p. 674). Infatti mancava poco a quel 3 gennaio 1925 che segna la nascita della dittatura con il discorso di Mussolini alla Camera: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!».

Le storie
degli Ebrei
Il volume curato dalla Dogliani contiene anche un altro prezioso saggio su Rimini. Riguarda «persecuzioni e salvataggi» degli Ebrei tra 1938 e 1944, e lo hanno composto Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni. Esso presenta materiale inedito proveniente dall’Archivio di Stato di Forlì. Il 13 agosto 1938 la Prefettura ordina una «delicata ed eccezionale rilevazione» (come essa scrive ai Comuni) al fine di accertare fra gli iscritti all’anagrafe «quelle persone che per il cognome e nome propri e dei loro discendenti, potessero far supporre l’appartenenza e la discendenza a razza ebraica». Poi gli autori parlano di come la cultura riminese dominante visse la questione razziale. Luigi Pasquini (1897-1977, scrittore e pittore) ripropone nel 1938 un suo slogan a favore dell’antisemitismo gridato nel 1923 al teatro Bonci di Cesena alla presenza del futurista Filippo Tommaso Marinetti. Peter Kolosimo (1922-84, fondatore dell’Archeologia “misteriosa” che studia le origini delle antiche civiltà) nel 1942 su «Testa di Ponte» definisce «il giudaismo» distruttore «di ogni valore spirituale» in quanto rivolto soltanto al benessere materiale, all’amoralità ed al vizio. (Pasquini, in un romanzo postbellico, ricorderà i soldati americani «negri, usciti inferiori da madre natura».)
I dati riminesi del censimento elencano quattordici famiglie, tra cui quella dell’ariano Alessandro Tonini coniugato con l’ebrea Barbara Sandon, nata in Romania. I coniugi Tonini furono noti insegnanti. (Nella sua storia del Liceo classico «Giulio Cesare», Luciano Canini definisce «burbera» la prof. Sandon.)
Alla fine del 1943 gli Ebrei residenti a Rimini sono ventitré: i loro nuclei assommano ad un totale di quarantaquattro persone. Pure le banche sono sollecitate a fornire notizie, ed eseguono immediatamente. Il paragrafo più tragico è quello che elenca le deportazioni. Sono nomi che il lettore scorre immaginando l’infinita tragedia che ognuno di essi porta con sé, come simbolo di quella storia collettiva che si conclude nei campi di concentramento, e che riguarda tutti noi anche oggi, a distanza di tanti anni. (Questo testo di Maggioli-Mazzoni era evidentemente in corso di stampa quando sono uscite le nostre tre pagine del «Ponte» [XI-XII 2005] sulla storia degli Ebrei a Rimini, in cui sono contenute notizie edite ed inedite che non incontriamo qui. Quelle edite provengono da un saggio di Renata Segre del 1986 che non si trova in Gambalunga e che abbiamo dovuto consultare a Ravenna; e da un nostro lavoro apparso nel 2000.)

«Qualcuno
si è salvato»
Lidia Maggioli ha curato poi le memorie di Cesare Moisè Finzi, «Qualcuno si è salvato ma niente è stato più come prima» (Il Ponte Vecchio, Cesena). Dopo l’8 settembre 1943 la famiglia Finzi fugge da Ferrara toccando anche Rimini, Gabicce, Morciano, Mondaino e Montefiore. La preside Maggioli esaminando l’archivio della sua scuola, il liceo Serpieri, incontrò tra le carte dell’anno 1944-45 una strana indicazione: l’alunno Finzi era dichiarato proveniente dall’Istituto Magistrale Parificato di Rimini che era una scuola femminile retta dall’Ordine delle Maestre Pie dell’Addolorata. Nelle pagine di Finzi l’episodio è ricostruito in tutti i particolari che vedono protagonista suor Fernanda Barbieri, originaria di Cento. La quale raccomandò al giovane Finzi di scrivere “male” il suo cognome nei compiti per l’esame di quarta magistrale, in modo che in sèguito si potesse correggere e leggere come se ci fosse stato scritto quello esatto: «L’unica che saprà della mia situazione sarà lei», osserva Finzi, «anche gli altri professori, comprese le consorelle, non sapranno niente».
Queste memorie ricostruiscono il contesto sociale e storico, come spiega Lidia Maggioli nella presentazione: «Cesare Finzi non si è accontentato di rifarsi ai ricordi personali ma ha operato un riscontro puntuale e minuzioso tra quanto era presente nella sua memoria e i documenti storici, i giornali dell’epoca, le lettere, le fotografie o altro materiale conservato e ritrovato in famiglia», per cui il suo lavoro ha acquistato «uno spessore via via maggiore».
Antonio Montanari

20 marzo 2006

Ricordi di scuola


Memorie tra pubblico e privato a questo link.

19 marzo 2006

Par condicio

Per par condicio espongo quanto segue. Si è parlato tanto di un malanno che ha afflitto il presidente del Consiglio al quale invio molti auguri di guarigione anche perché ogni tanto mi invia lettere affettuose ed opuscoli divertenti. Uno suggeriva di pensare alla salute. Ho evitato per lo spavento subìto di leggere il capitolo che mi riguarda (dove si parla degli anziani), appunto perché come suggeriva il titolo stesso è meglio pensare alla salute piuttosto che alle medicine, visto che queste ultime procurano più malattie della stessa vecchiaia. Il secondo opuscolo, più recente, parla dell’innovazione digitale, dove il ministro Lucio Stanca ha scritto una premessa che non spiega in che cosa consista la stessa innovazione digitale. Credo che interessi mia moglie che usa il ditale per attaccarmi i bottoni delle camicie e rammendarmi le calze.

Vengo alla par condicio: pure io ho avuto la bua, il fuoco di Sant’Antonio, dal costo di 140 euro per visita specialistica a mie spese e di oltre 120 per farmaco antivirale a carico del ministro della Sanità, che poi adesso è lo stesso signore che ogni tanto mi scrive, ma l’opuscolo sulla salute non l’ha compilato lui perché l’avrebbe intitolato: non preoccuparti della salute che ci pensiamo noi. Inoltre, alla par condicio si unisce un conflitto d’interessi tutto mio, perché nel giorno in cui stavo male avevo due appuntamenti ai quali non volevo partecipare per non trovarmi con persone alle quali risulto sgradito e che di conseguenza mi sono leggermente antipatiche. Avevo pensato: non ci vado, e dico che sto male mentre non è vero. Ecco, la fregatura è stata questa, provocata psichicamente dal conflitto d’interessi: per dimostrare che era vero che stavo male, mi sono ammalato davvero.

Il fatto forse non è stato creduto da chi non mi ha visto arrivare, ma a me non interessa. In precedenza per evitare un brutto incontro avevo inventato un viaggio. Dico che vado a Roma, spiegai a mia moglie, la quale mi suggerì di fissare una mèta più vicina, diciamo Bologna. Dovevo presentare un mio scritto, ma l’organizzatore aveva invitato anche un’altra persona che non c’entrava nulla e che professionalmente non mi garba. Il fatto strano è che quando l’organizzatore mi ha chiamato per la conferma, prima che gli dicessi che sarei stato assente ed in viaggio per Bologna, lui mi avvertì che l’altra persona era impossibilitata ad intervenire per mal di denti. Una perfetta par condicio.

12 marzo 2006

Sanitari

Torna in mente la scenetta di oltre trent’anni fa con Cochi e Renato: «Bambini assenti e presenti, facciamo l’appello». Lo facciamo anche noi guardando alle liste elettorali del 9 aprile. Non alzano la mano tre personaggi finora illustri. Mattia Feltri, giornalista geniale e figlio d’arte, sull’argomento ha scritto un articolo intitolato «Trombatura ad personam», prendendo in prestito tre caratteri del cinema spaghetti-western: il buono, il brutto e il cattivo, ovvero Melchiorre Cirami, Giuseppe Gargani e Carlo Taormina, rispettivamente la mente della riforma giudiziaria, l’ideatore della legge sul legittimo sospetto e l’accusatore implacabile di ogni grado della magistratura inquirente o giudicante. «Chi li ha visti?», potrebbe esser lo special da mandare in onda su qualche tv, se la domanda non si trasformasse in una inquietante constatazione: non c’è riconoscenza a questo mondo. Cancellare dal parlamento l’avvocato Taormina significa consegnarlo prigioniero a Bruno Vespa per ogni tipo di trasmissione di genere giudiziario, con le più dissonanti variazioni sul tema, come è già accaduto: arrestate quella donna che ha ucciso un figlio, liberate quella donna che avete condannato come omicida del figlio.
L’epurazione si è allargata dalle liste politiche a quella delle amicizie. Il mitico prof. Scapagnini, autore di una profezia forse improbabile che attribuiva al Cavaliere la qualifica di «tecnicamente immortale», è stato declassato da medico ufficiale (una specie di laico archiatra) a semplice amico. E soprattutto Berlusconi ha tolto con crudeli parole a Scapagnini il merito da quest’ultimo sbandierato d’aver preparato una sorta di filtro magico capace di meravigliosi effetti sull’antico paziente. Il quale ora a due cronisti dell’Agenzia giornalistica Italia ha detto che quell’elisir miracoloso non gli serve a nulla.
Se come insegnano gli scrittori latini, è dalle biografie dei personaggi che possiamo ricavare alcuni tratti distintivi di un’epoca, non c’è da stare molto allegri. Accantonato l’avvocato che in ogni dichiarazione ai telegiornali gettava nel panico l’ascoltatore disinformato (dalla stessa televisione), il luminare Scapagnini è stato declassato quando il capo del governo assumeva l’incarico al ministero della Sanità per le dimissioni del titolare, colpito da infezione di spionaggio presunto a danno della nipote del duce, che ha una laurea in Medicina grazie a cui dice: adesso vi curo io. Berlusconi ne ha bisogno, soffre di amnesie. A Lucia Annunziata (da lui definita «violenta» per una domanda sulla Confindustria che lo ha fatto scappare) ha dichiarato d’aver «poca possibilità di andare in tv», nella Rai «protesi della sinistra». Parole sanitarie.

05 marzo 2006

Ieri e oggi

Non ci sono più i San Remo di una volta. Povero Panariello, povero non nel senso che non lo abbiano (stra)pagato bene, ma perché per mortificarlo gli hanno contrapposto il rimpianto di Pippo Baudo. Pagine e pagine di commenti per concludere poi che non sono soltanto canzonette, addirittura tre cantanti con decorazioni della Repubblica italiana. Alla quale dal 20 febbraio manca un pezzo, un ministro. Ho controllato sul sito internet di Palazzo Chigi: là dove c’era un uomo verde (in senso di leghista) adesso c’è il vuoto alla voce «Ministero delle Riforme istituzionali e devoluzione». Punto e basta. Era «senza portafoglio», è rimasto senza successore, nessuno ha assunto la delega come si ricava dal decreto apparso sulla «Gazzetta Ufficiale». Tutti a pensare a San Remo, e nessuno alle Riforme orfane: come dire, tanto che ci sia o non ci sia il ministro, non fa differenza. Non era mai successo prima di ora. Meravigliarsi? No davvero, ai nostri giorni. Tina Anselmi ha detto che il nostro Paese sembra perdere «nell’indifferenza generale» la sua memoria, la sua identità nata dalla Resistenza: «Oggi si può essere fascisti senza provocare alcuna reazione, solo un anno fa non avremmo accettato supinamente una realtà del genere».
Il passato inevitabilmente ritorna. Il nostro presidente del Consiglio a Nuova York è stato decorato della «medaglia della libertà» per mano di un signore di 97 anni, Mike Stern, che nel 1947 venne a Roma come giornalista. In realtà era un agente segreto sotto copertura, capitano dell’Office of Secret Service (Oss), il progenitore della Cia. Stern operò in Sicilia, fornendo armi al bandito Giuliano che ammazzava i carabinieri ed i poliziotti che gli davano la caccia, mentre i loro capi (ha scritto Attilio Bolzoni su «Repubblica») «scendevano a patti con il ‘re’ di Montelepre, con i capimafia della zona e perfino con i reduci della Decima Mas del principe Junio Valerio Borghese che proprio gli americani fecero fuggire dopo averlo catturato».
A proposito di Sud: la sua nuova Banca ha un vertice che il vice-premier Fini con il «Corriere della Sera» ha definito pittoresco e bizzarro per via della presenza del principe Lillio Ruspoli e di Carlo di Borbone. Ha riposto Ruspoli: nel 1993 lo stesso Fini mi scrisse elogiando la mia «dedizione ai comuni valori nazionali» ed il mio «impegno civile e culturale». Non sempre i politici tornano nella stessa bottega d’antiquariato.