22 marzo 2006

Rimini 1919-1945

Il ruolo politico di Rimini in pace e guerra, 1919-45
Mussolini dopo il delitto Matteotti: discorso in tre versioni

Alla «Romagna tra fascismo e antifascismo, 1919-1945» è dedicato un volume curato da Patrizia Dogliani (Clueb, Bologna), in cui si raccolgono vari contributi nati all’interno degli Istituti di Storia contemporanea e della Resistenza delle province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini. A proposito di Rimini, la Dogliani osserva che la nostra area «almeno sino alla guerra» ebbe una sua specificità ed anche una certa marginalità rispetto al resto della Romagna, sia quando il fascismo stava nascendo sia quando era già al potere.
Dal punto di vista della strategia politica, il territorio riminese negli anni Venti fu considerato una «testa di ponte» per far avanzare lo squadrismo in Romagna e Marche. Per il regime divenne poi la vetrina delle colonie marine per l’infanzia, e la spiaggia della nuova borghesia in camicia nera, più popolare e moderna rispetto alla aristocratica Viareggio dove soggiornavano i Ciano, mentre la famiglia Mussolini aveva scelto la vicina Riccione. Con la guerra la nostra zona dalla costa alla collina è uno dei principali teatri del conflitto. Infine, conclude la Dogliani, «da Rimini parte, e non solo in ordine cronologico, la ricostruzione della Romagna con tutte le sue difficoltà nelle scelte e nei tempi».

Bilancio critico
di Casadei
Maurizio Casadei, studioso da vari decenni specializzatosi in queste tematiche (recente è anche un suo altro testo, «La liberazione di San Clemente»), affronta questi aspetti della vita riminese con un lungo saggio (p. 99-192) a cui hanno collaborato Davide Bagnaresi e Gianluca Corbucci. Alla ricostruzione storica accurata che sintetizza in maniera esemplarmente chiara il succedersi degli avvenimenti lungo l’intero arco di tempo preso in considerazione, fa sèguito l’analisi storiografica che compila un bilancio molto preciso degli studi e dei testi esistenti, con particolare attenzione alle lacune tuttora riscontrabili. Citeremo ad esempio quanto si legge a proposito delle carenze relative in generale ai risultati elettorali, al radicamento nel territorio ed alla rappresentatività sociale dei partiti. Oppure ciò che riguarda la formazione dei gruppi dirigenti sindacali e politici, ed anche la crisi del socialismo e le origini del fascismo riminese.
Casadei scrive al proposito alcune pagine che andrebbero prese come linee-guida per il lavoro che gli appositi enti (tra cui lo stesso Istituto storico di Rimini) dovrebbero programmare non affidandosi al caso (ovvero allo spirito di ricerca individuale) ma appunto ad un progetto che portasse a colmare i vuoti denunciati dalla sua acuta e rigorosa analisi storiografica. Il fatto è che Rimini, di questi vuoti in campo storiografico soffre da lungo tempo, e non soltanto a proposito del periodo preso in considerazione dall’amico Casadei: basti pensare alla mancata valorizzazione dell’immenso patrimonio che documenta la storia culturale della nostra città nei secoli passati. Ma al proposito non procediamo oltre, per non andar fuori del seminato, e quindi trascurando l’esame del volume che abbiamo sotto gli occhi.

In attesa
di un ordine
Casadei ricorda, a proposito del ruolo politico di Rimini, quanto accaduto il 21 settembre 1924. Tre mesi dopo il delitto Matteotti, «Mussolini impose una svolta alla crisi nazionale proprio» nella nostra città, partecipando alle celebrazioni pascoliane «con un discorso atteso da una folla corsa da mezza Italia». Casadei rimanda ad un testo dell’avvocato Oreste Cavallari che in tre volumi raccontò le vicende locali fra 1910 e 1946. Nel secondo di essi, intitolato «All’arme, siam fascisti» (1977), il grande invalido di guerra Cavallari (che non fu un «nostalgico», ma esponente di spicco del repubblicanesimo storico romagnolo), osserva che quella folla era giunta a Rimini «con la speranza di ricevere l’ordine di scatenarsi». Mussolini dette quell’ordine?
Cavallari riporta due citazioni che (non per colpa sua ovviamente), si contraddicono fra loro. La prima: «Voi non avete le mani legate, non c’è bisogno di slegarvele; le mani legate le ho io, e basta!» (testo ripreso dall’«Opera omnia» di Mussolini, che rinvia a quello del «Popolo d’Italia»). La seconda citazione (dal «Popolo di Romagna») è questa: «Voi avete le mani legate, non c’è bisogno di slegarle; le mani slegate le ho io, e basta!». Osservava sconsolato Cavallari: «Allora il passo è da interpretare tutt’al contrario: comando solo io, e basta! Ubbidite e non fate sciocchezze». Come ho dimostrato nella recente «Storia di Rimini» edita da Bruno Ghigi, nel capitolo conclusivo da me curato sul periodo 1859-2004 (pp. 286-287), esiste pure una terza versione di quel discorso di Mussolini: il foglio locale «La Prora» scrive che le camicie nere «non» hanno le mani legate al pari del duce. Il 13 dicembre il bollettino del Fascio riminese «Testa di Ponte», toglierà ogni dubbio, invitando Mussolini a ricorrere alla forza: «Dio ve l’ha concessa, usatela!».

Silenzio
degli storici
Forse la contraddizione rilevata già da Cavallari tra le versioni dei due «Popoli» (intesi come testate di giornali), quello d’Italia e quello di Romagna, può aver portato gli storici a non dare eccessivo peso alle parole riminesi di Mussolini. Giorgio Candeloro nel nono volume (1981) della sua storia d’Italia (p. 84) ricorda che il 9 settembre una delegazione di industriali chiese a Mussolini di normalizzare la situazione del Paese ristabilendo l’ordine costituzionale. Invece nella classica biografia composta da Laura Fermi (1963), è citata la minaccia pronunciata da Mussolini ai minatori di Monte Amiata contro l’opposizione: «Il giorno in cui [i suoi membri] uscissero dalla vociferazione molesta, per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro ne faremo lo strame per gli accampamenti delle camicie nere» (p. 254). Neppure Renzo De Felice in «Mussolini il fascista» (1995) parla di Rimini. Ricorda pure lui il discorso di Monte Amiata («dal tono minaccioso… fece molto scalpore»), aggiungendo che un lungo viaggio del duce in molte località «non valse a placare le acque» (p. 674). Infatti mancava poco a quel 3 gennaio 1925 che segna la nascita della dittatura con il discorso di Mussolini alla Camera: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!».

Le storie
degli Ebrei
Il volume curato dalla Dogliani contiene anche un altro prezioso saggio su Rimini. Riguarda «persecuzioni e salvataggi» degli Ebrei tra 1938 e 1944, e lo hanno composto Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni. Esso presenta materiale inedito proveniente dall’Archivio di Stato di Forlì. Il 13 agosto 1938 la Prefettura ordina una «delicata ed eccezionale rilevazione» (come essa scrive ai Comuni) al fine di accertare fra gli iscritti all’anagrafe «quelle persone che per il cognome e nome propri e dei loro discendenti, potessero far supporre l’appartenenza e la discendenza a razza ebraica». Poi gli autori parlano di come la cultura riminese dominante visse la questione razziale. Luigi Pasquini (1897-1977, scrittore e pittore) ripropone nel 1938 un suo slogan a favore dell’antisemitismo gridato nel 1923 al teatro Bonci di Cesena alla presenza del futurista Filippo Tommaso Marinetti. Peter Kolosimo (1922-84, fondatore dell’Archeologia “misteriosa” che studia le origini delle antiche civiltà) nel 1942 su «Testa di Ponte» definisce «il giudaismo» distruttore «di ogni valore spirituale» in quanto rivolto soltanto al benessere materiale, all’amoralità ed al vizio. (Pasquini, in un romanzo postbellico, ricorderà i soldati americani «negri, usciti inferiori da madre natura».)
I dati riminesi del censimento elencano quattordici famiglie, tra cui quella dell’ariano Alessandro Tonini coniugato con l’ebrea Barbara Sandon, nata in Romania. I coniugi Tonini furono noti insegnanti. (Nella sua storia del Liceo classico «Giulio Cesare», Luciano Canini definisce «burbera» la prof. Sandon.)
Alla fine del 1943 gli Ebrei residenti a Rimini sono ventitré: i loro nuclei assommano ad un totale di quarantaquattro persone. Pure le banche sono sollecitate a fornire notizie, ed eseguono immediatamente. Il paragrafo più tragico è quello che elenca le deportazioni. Sono nomi che il lettore scorre immaginando l’infinita tragedia che ognuno di essi porta con sé, come simbolo di quella storia collettiva che si conclude nei campi di concentramento, e che riguarda tutti noi anche oggi, a distanza di tanti anni. (Questo testo di Maggioli-Mazzoni era evidentemente in corso di stampa quando sono uscite le nostre tre pagine del «Ponte» [XI-XII 2005] sulla storia degli Ebrei a Rimini, in cui sono contenute notizie edite ed inedite che non incontriamo qui. Quelle edite provengono da un saggio di Renata Segre del 1986 che non si trova in Gambalunga e che abbiamo dovuto consultare a Ravenna; e da un nostro lavoro apparso nel 2000.)

«Qualcuno
si è salvato»
Lidia Maggioli ha curato poi le memorie di Cesare Moisè Finzi, «Qualcuno si è salvato ma niente è stato più come prima» (Il Ponte Vecchio, Cesena). Dopo l’8 settembre 1943 la famiglia Finzi fugge da Ferrara toccando anche Rimini, Gabicce, Morciano, Mondaino e Montefiore. La preside Maggioli esaminando l’archivio della sua scuola, il liceo Serpieri, incontrò tra le carte dell’anno 1944-45 una strana indicazione: l’alunno Finzi era dichiarato proveniente dall’Istituto Magistrale Parificato di Rimini che era una scuola femminile retta dall’Ordine delle Maestre Pie dell’Addolorata. Nelle pagine di Finzi l’episodio è ricostruito in tutti i particolari che vedono protagonista suor Fernanda Barbieri, originaria di Cento. La quale raccomandò al giovane Finzi di scrivere “male” il suo cognome nei compiti per l’esame di quarta magistrale, in modo che in sèguito si potesse correggere e leggere come se ci fosse stato scritto quello esatto: «L’unica che saprà della mia situazione sarà lei», osserva Finzi, «anche gli altri professori, comprese le consorelle, non sapranno niente».
Queste memorie ricostruiscono il contesto sociale e storico, come spiega Lidia Maggioli nella presentazione: «Cesare Finzi non si è accontentato di rifarsi ai ricordi personali ma ha operato un riscontro puntuale e minuzioso tra quanto era presente nella sua memoria e i documenti storici, i giornali dell’epoca, le lettere, le fotografie o altro materiale conservato e ritrovato in famiglia», per cui il suo lavoro ha acquistato «uno spessore via via maggiore».
Antonio Montanari