08 gennaio 2013

Zeffirino Gambetti


Quarantacinque anni di lavoro nel tempo libero lasciatogli dal suo impegno sacerdotale, sono testimoniati dal fondo bibliotecario conservato nella Gambalunga di Rimini, e che prende il titolo da lui, Zeffirino Gambetti (1803-1871).
"Gambetti ha raccolto e ordinato tutto quanto riguardasse la città e il territorio di Rimini, la sua storia e i suoi abitanti, noti e meno noti, del passato ma anche coevi e contemporanei, salvando dall'oblio non solo importanti autografi ma anche ricevute di pagamento, promemoria temporanei, modulistica d'uso quotidiano, effimeri avvisi a stampa, pregiate edizioni e pubblicazioni occasionali e devozionali, incisioni e dipinti", scrive Maria Cecilia Antoni nel suo saggio dedicato al sacerdote, appena pubblicato in "Studi Romagnoli", LXII, 2011.
Tutti i materiali descritti, le famose "Schede Gambetti" della Gambalunga, si possono consultare anche su Internet dal sito della stessa biblioteca riminese.
Come scrive Antoni, si deve a Gambetti, il salvataggio e la conservazione in Gambalunga del patrimonio manoscritto di Giovanni Bianchi, e di parte di quello a stampa.
Il significato di tutto il lavoro di Gambetti è così riassunto da Antoni: esso consente "di recuperare aspetti esistenziali minuti e domestici" di molti personaggi. Questi elementi "illuminano il contesto sociale e privato, contribuendo in modo determinante alla ricostruzione della storia locale".
A Maria Cecilia Antoni si deve pure il saggio (2010) sul fondo gambalunghiano intitolato a Michele e Michelangelo Rosa, apparso su "Studi Montefeltrani". Esso offre uno strumento di corredo, un inventario sommario, per consentire agli studiosi di conoscere e valorizzare un ricco patrimonio documentario che altrimenti sarebbe silenzioso ed inerte, realizzando l'essenziale funzione degli addetti ai "beni pubblici".
Un'osservazione marginale ma non per questo secondaria. Lavori così significativi ed importanti come questi di Maria Cecilia Antoni, una studiosa accurata e discreta, non possono trovar spazio in nessuna "sede" ufficiale riminese, mancando per l'editoria ogni iniziativa pubblica cittadina.

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, 06.01.2013

17 dicembre 2012

L'uovo di Natale

Quando nell'ultimo anno il Paese ha dovuto affrontare situazioni difficili con provvedimenti severi, ci hanno spiegato che si rendevano necessari perché ce li chiedeva l'Europa. Ma nell'ottobre 2011 era stata la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia a lanciare l'allarme sul "tempo scaduto", aggiungendo: "Siamo sull'orlo del baratro". Poi è nato il governo Monti. Il presidente Napolitano dichiarava: i sacrifici stavano "arrivando giusto in tempo per evitare sviluppi in senso catastrofico della nostra situazione".
Ora siamo in attesa dell'appuntamento elettorale. Restiamo fiduciosi, ma dovremmo pure essere consapevoli che l'incertezza regna sovrana. Oggi attribuiamo all'Europa non i sacrifici di cui l'anno scorso parlava Napolitano per evitare la miseria nera nel Paese. Ma addirittura la scelta di quello che dovrebbe o potrebbe essere il vincitore delle prossime elezioni, ovvero il presidente Mario Monti che piace a Francia e Germania e sopratutto, come scrivono i giornali, è desiderato con grande passione dai moderati.
Su questa parola esistono molti equivoci che non dipendono da cattiva volontà di chi la usa, ma dal fatto oggettivo che un'etichetta dice più di una cosa quando la si usa per accorciare i discorsi, o riassumerli interessatamente, dimenticando quali collegamenti oscuri possa avere, o addirittura quanto essa possa negare l'evidenza dei fatti e la verità sulle persone. Ad esempio, come scrive Massimo Mucchetti sul CorSera (16.12), tra di loro in Europa figura pure un personaggio ungherese dai tratti fascisti. Se lo schema di distinzione usato da Muchetti per l'Europa lo applicassimo pure all'Italia, potremmo avere conferma della grande confusione che c'è sotto il nostro cielo. Chi come giornalista ha lavorato al soldo dei Servizi segreti, ha tutti i diritti tranne quello di dirsi moderato. Non è questione di punti di vista, ma di coerenza morale, senza la quale si va poco lontano. Ed infatti, oggi, noi in Italia siamo fermi alle dispute sui puri nomi, come i filosofi medievali, senza badare ai fatti. Per questo l'Europa ci chiede ogni tanto qualcosa, come ad esempio di fare l'uovo di Natale, così risparmiamo quello di Pasqua. Non sappiamo però quale sorpresa esso contenga: un fantasma od una persona vera? Siamo tutti a bocca aperta in attesa di aprire quell'uovo, dimenticando Storia, Costituzione e Politica, non nel senso perverso dei rimborsi di spese ridicole o moralmente oscene. [Anno XXXI, n. 1108]
Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, n. 46, 23.12.2012, Rimini

12 settembre 2012

Anni Sessanta

Alla fine il romanzo riminese di Walter Veltroni ha messo d'accordo tutti: per dirla con Fantozzi, è una bojata pazzesca. Ha cominciato l'ex sindaco Giuseppe Chicchi. D'accordo sulla demolizione dell'isola delle rose (se fosse sopravvissuta, oggi il mare sarebbe pieno di "repubbliche delle poveracce"), avverte: l'isola non c'entra nulla con il Sessantotto. Per Chicchi la risposta alla crisi in cui Italia e Rimini vivono, non si trova nell'effimero, ma nel lavoro faticoso e lento per rafforzare le istituzioni politiche, economiche e culturali.
Poi è arrivato D'Alema, con un occhio rivolto al Veltroni del '68 (un tredicenne alla scoperta della vita), e l'altro a se stesso in viaggio per l'Europa, da Praga a Francoforte. Il sapore della nostalgia, notato dal leader Massimo nel romanzo del giovane Veltroni, potrebbe sottintendere una deplorevole ispirazione borghese che fa sorridere l'antico rivoluzionario di professione D'Alema.
Un altro recensore, Nerio Nesi, descrive il libro veltroniano con raffinate parole: è ispirato alla commedia all'italiana. Quella che fatto le fortune di cinema e tv. Infine la domanda più angosciante di Nesi, approda alla riva della comicità pura: perché, se quell'isola è affondata, è finito pure sott'acqua il suo ricordo? Ma Nesi non è mai venuto a Rimini? Per spiegargliela, usiamo le parole di un altro illustre romanziere che con le sue pagine ha costruito un monumento alla memoria degli anni Trenta nella nostra città, Sergio Zavoli. In questa stessa rubrica, nel 1993 (n. 467) abbiamo riportato alcune sue frasi pronunciate alla tv di San Marino: "Rimini non onora il cittadino che si fa onore. È dissacrante, disincantata, ironica. Non concede più di tanto, è scettica. La sua diversità risale al tempo dell'inverno vissuto nei caffè, che è il suo tempo, non l'estate: e noi d'inverno discutevamo se si dovesse dire tela gommata o gomma telata. Rimini gode nell'immaginare, nell'esagerare".
Dopo 20 anni che cos'è cambiato? Nel 1992 (n. 447) avevamo immaginato Achille Occhetto inaugurare il monumentale edificio del Kursaal di cartapesta, dieci metri per tre, legno compensato, primo esempio della Rimini del futuro, pronunciando un applaudito discorso per additare a tutti "l'opera nuova che resterà immortale nei secoli avvenire". Il nostro Occhetto concludeva chiedendo ai riminesi: "Volevate la metropolitana?". E prometteva l'arrivo di trenini giocattolo per tutti. Nel 2012 è giunta la ruota gigante. [Anno XXXI, n. 1094]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA
"il Ponte", settimanale, n. 32, 16.09.2012, Rimini

25 novembre 2011

Cesari, ma solo 12

I cruciverba sono sempre di grande aiuto, altro che le biblioteche. Vi chiedono quanti sono i famosi Cesari, e se non lo sapete, aspettate un'altra occasione, quando spiegano che quelli di Svetonio sono dodici. Tutto risolto. Con due semplici domandine, magari senza rispondere a nessuna di esse, avete ottenuto un risultato che oggi vi fa correre il rischio di ricevere una laurea ad honorem.
Caio Tranquillo (beato lui) Svetonio, storico romano del sec. I, scrisse le biografie di Giulio Cesare e degli imperatori da Augusto a Domiziano. Adesso Svetonio sarebbe meno tranquillo se dovesse scrivere le vite di quanti in Italia si considerano dei Cesari in una Repubblica che dovrebbe guardare più al Popolo che ai capipopolo. Tant'è, non per nostra suggestione od errata informazione, ma secondo dati veri.
Noi italiani sino a poco tempo fa ci consideravamo un popolo felice ed assistito dalla Fortuna (quella che presso i Romani baciava gli audaci) perché i nostri politici avevano abolito il caos parlamentare della cosiddetta Prima Repubblica, provocato dai tanti partiti allora esistenti con annesse correnti note ed ignote (dette dei "franchi tiratori"). Ed avevano inventato il modello italiano del bipolarismo. Ma si sa che cosa significa "italiano" in certi contesti. Vuol dire semplicemente che non sempre alle parole seguono i fatti, per cui i nomi sono un semplice suono della voce e non pure un segno a cui far corrispondere una precisa, delineabile realtà.
La crisi di governo a cui abbiamo assistito di recente ha un timido riscontro in una breve frase del Tacito delle "Storie" (I, 2), "Et quibus deerat inimicus per amicos oppressi": e chi non aveva nemici rimase vittima degli amici. Nel corso della crisi i cronisti più attenti hanno contato quanti amici del bipolarismo sono andati in retromarcia verso l'odiato sistema della Prima Repubblica, con partiti, correnti e conseguenti temporali pieni di fulmini. Massimo Gramellini (15.11) ha così riassunto il bollettino meteo della nostra Politica: i cinque partiti in Parlamento alle ultime elezioni, sono diventati ventuno.
Più pessimista è stata l'Agenzia Ansa che alle 18,41 del 14 novembre ha diramato un servizio che elenca 34 gruppi chiamati a consulto dal neo presidente del Consiglio, prima di accettare l'incarico e presentarsi in Parlamento. Svetonio oggi rinuncerebbe all’incarico di scrivere le storie dei nostri 34 presunti Cesari. [XXX, 1058]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA

"il Ponte", settimanale, Rimini, 27.11.2011

19 marzo 2011

Si fa presto a dire Italia


Si fa presto a dire Italia. Anche perché, come ha riassunto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, "ne abbiamo passate tante".


All'Italia del 1861 mancano Roma, Trento e Trieste. Un secolo esatto fa, contro l'Italietta imbelle, si muove la grande proletaria di Zvanì Pascoli con la campagna di Libia. Il socialista Mussolini è contrario, sradica binari ferroviari. I futuristi predicano la guerra "sola igiene del mondo". Poi ci si mette anche Gabriele D'Annunzio. Le disgrazie non vengono mai sole.


Allo scoglio di Quarto il 5 maggio 1915 si inaugura il monumento ai Mille di Garibaldi con un discorso ufficiale interventista di D'Annunzio. Il governo di Antonio Salandra lo ha letto in anticipo, decidendo: né primo ministro né re sarebbero intervenuti alla cerimonia. Il 13 maggio Salandra si dimette. Il neutralista Giovanni Giolitti ha un appoggio politico superiore a quello di Salandra. Le sue dimissioni sono respinte dal re. D'Annunzio in un comizio al teatro Costanzi di Roma, incita il pubblico ad ammazzare Giolitti. Nel 1921 il poeta inventa la "Vittoria mutilata", con la marcia su Fiume. L'anno dopo, altra marcia (in carrozza-letto) su Roma, di Mussolini.


I Savoia, che hanno fatto l'Italia, cominciano a disfarla. Il re non firma il decreto del governo per lo stato d'assedio. Poi il 25 luglio 1943 fa arrestare "il cavalier Benito Mussolini". Nel 1938 il re ha firmato le infami leggi razziali. La sera dell'8 settembre 1943 il re fugge con il governo da Roma. I militari sono lasciati in balìa di loro stessi. I comandanti gli dicono: "Se riuscite ad andare a casa, potete farlo". Il 9 novembre la Repubblica di Salò li richiama alle armi.


Sino al 25 aprile 1945 il secondo Risorgimento si chiama Resistenza. Il primo aveva voluto (spiega lo storico Emilio Gentile) "affermare il merito e le capacità dell'individuo contro il privilegio di nascita e di casta". Da qui deriva l'art. 1 della nostra Costituzione del 1948, la Repubblica è "fondata sul lavoro", per rifiutare l'idea di uno Stato basato su quel privilegio.


Nel 1935 a Parigi gli esuli di Giustizia e Libertà hanno discusso sull'Italia generata dal Risorgimento e madre del fascismo, "prototipo della moderna barbarie, che per di più pretendeva di rappresentare la provvidenziale conclusione del Risorgimento stesso". Sono parole dello storico Claudio Pavone. Due di quegli esuli nel 1937 sono stati uccisi in Francia, i fratelli Carlo e Nello Rosselli. "Ne abbiamo passate tante". [1033]


Antonio Montanari

il Ponte, Rimini, 27 marzo 2011

11 novembre 2010

Voltaire e noi

Esce oggi 11 novembre 2010 l'intervista immaginaria di Giulio Giorello a Voltaire, che comincia: "Monsieur le philosophe...".

La settimana scorsa Sergio Romano, introducendo il trattato "Sulla tolleranza" dello stesso Voltaire, lo definiva invece "giornalista" ("anche se la parola può sembrare riduttiva") perché "non fu mai un filosofo, nel senso corrente della parola". Anche se, osserva, lo stesso Voltaire si sarebbe definito "philosophe".

Silvia Ronchey nelle recenti "Vite più che vere di persone illustri" (raccolte sotto il titolo de "Il guscio della tartaruga"), lo chiama "un aristocratico del pensiero" perché così ritiene che lui si considerasse. E lo riassume in questi termini: "François-Marie Arouet fu un avvocato, un libertino, un detenuto, uno speculatore, un viaggiatore, un polemista, un cortigiano, un filosofo, un commediografo, un tragediografo, un narratore. Si chiamò anche Voltaire".

Forse il problema di tutte le biografie sta qui, in quell'essere "anche" quello che poi una persona appare ai posteri.
L'editore di Ronchey spiega alla fine del libro il senso del titolo ("Il guscio della tartaruga"): il guscio è più largo del corpo della tartaruga ed è coperto da un mosaico di scaglie. "Anche queste vite sono un mosaico".
Come (aggiungiamo) forse quelle di tutti noi. Il guaio della Storia è che spesso delle vite ordinarie si perdono le tessere, e nessuno si cura di recuperarle.

Per le esistenze straordinarie, invece, si fa a gara a cercar etichette.
Ronchey insegna che è meglio abbondare nell'elenco.
Giorello, che bisogna adottarne una per semplificare le cose, usando l'immagine più semplice e per questo efficace.
Invece Romano cancella tutto il nuovo che la nuova filosofia dei nuovi filosofi del Settecento suggerisce. Il "giornalista Voltaire" agli occhi di Romano ha però una missione politica da compiere, quella di insegnare a contemporanei e posteri il valore della tolleranza, negata dal processo a Jean Calas, accusato d'aver ucciso il figlio per non farlo convertire alla fede cattolica, e poi condannato a morte.

Recente è anche l'edizione del trattato curata da Sergio Luzzato, in cui si racconta come nel 1949 esso divenne un "testo di riferimento" dell'allora Pci, per la traduzione che ne fece Palmiro Togliatti.
Lo storico Luzzato scrive un'intelligente pagina provocatoria che conclude efficacemente: "il paradosso italiano di un Voltaire confiscato dai comunisti", deriva dalla "relativa indifferenza (per non dire l'altezzosa sufficienza) con cui il liberalismo nostrano", tutto "impregnato di umori spiritualisti", aveva guardato "alla materialistica epoca dei Lumi".

21 gennaio 2010

Razzismo del "Carlino"



"Rimini peggio di Rosarno". E noi abbiamo avuto il mistero della "Uno bianca"



Rosarno







"Rimini peggio di Rosarno", diceva la "civetta" del "Carlino" del 19 gennaio, alludendo alle statistiche del lavoro nero. Sono parole che possono alimentare atteggiamenti razzisti dei quali non sentiamo la mancanza. Giriamo lo sguardo alla cronaca recente o remota del Sud e del Nord. Sono fatti uniti da un odio avvolto in misteriose trame.

Il 18 settembre 2008, a Castel Volturno sei extracomunitari sono assassinati dal gruppo di un "superkiller". Umberto Bossi dice: "Li avranno fatti fuori perché si sono messi a spacciare per conto loro, e la camorra vera non lo permette". Osserva Conchita Sannino sull'edizione napoletana di "Repubblica": "Erano invece lavoratori e incensurati, alcuni sfruttati, e morirono per mano della follia stragista di casalesi".

Barbara Spinelli sulla "Stampa" (10 gennaio) ricorda l'episodio aggiungendo: nel dicembre 2008 a Rosarno i lavoratori neri "si ribellarono alla 'ndragheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità".

Barbara Spinelli ha parlato di "africani dell'antimafia". In contrapposizione a questo spirito di legalità difeso proprio da chi è accusato di essere fonte di illegalità, ovvero gli immigrati, vengono in mente episodi più antichi.
Bologna, 23 novembre 1990. La banda dell'Uno bianca uccide Patrizia Della Santina (34 anni) e Rodolfo "Tatino" Bellinati (27 anni), al campo nomadi di via Gobetti. Ferisce una bambina di sei anni, Sara Bellinati ed una slava di 34, Lerje Lluckaci.

Precisa un lancio d'agenzia: "Alcuni nomadi testimoniano la presenza nel campo di un uomo con un giubbotto poco prima dell'arrivo delle auto", appunto la Fiat Uno bianca ed una Lancia Y10. Una zingara, presente nel campo al momento dell'agguato, e chiamata in Questura a testimoniare riconosce tra i poliziotti presenti uno degli aggressori, Roberto Savi, ma nessuno le dà ascolto.

Andiamo ancora più indietro nel tempo, tra 1977 e 1984: in Veneto (ed altrove) sono uccise quindici persone da due giovani della "Verona bene", 24 e 25 anni, che volevano ripulire la società e firmavano volantini di rivendicazione con "Gott mit uns" ("Dio è con noi"). E' la banda cosiddetta "Ludwig".

Le quindici vittime: un nomade trentenne bruciato vivo, un cameriere omosessuale di quarantaquattro accoltellato come poi un tossicodipendente di ventidue, una prostituta di cinquantadue anni finita a colpi di accetta e di scure, un drogato diciottenne bruciato vivo in un capannone (altri due restano gravemente ustionati), due anziani religiosi massacrati a colpi di martello mentre rientrano da una passeggiata, un frate ucciso a colpi di punteruolo (gli lasciano piantato un crocefisso nella schiena), sei morti in un cinema a luci rosse di Milano (32 feriti gravi) ed una cameriera di una discoteca a Monaco di Baviera (dove uno dei due attentatori ed assassini ha studiato).

Ecco, prima di suggerire al lettore di giornali distratto (che guarda spesso soltanto al titolo delle locandine) che "Rimini è peggio di Rosarno", ricordiamoci che la recente storia d'Italia è piena di vicende amare, spesso etichettate come "misteri", su cui appunto non si è fatta pienamente luce. Per cui azzardare che "Rimini è peggio di Rosarno", è un'operazione politica che non rispetta il vero ed ignora il passato ed il presente. Offende i neri di Rosarno, e qualifica il lavoro nero di Rimini come trama malavitosa. I superkiller che hanno agito con la "Uno bianca" restano tutto un altro discorso. Mai chiuso e mai riaperto.




[21.01.2010, anno V, post n. 29 (1120), © by Antonio Montanari 2010. Mail.]

Sul tema, vedere anche la nota pubblicata sul "Ponte" di Rimini. (Si legge anche in questo blog.)

[Testo aggiornato, 22.01.2010, 17:10]

Divieto di sosta. Antonio Montanari. blog.lastampa.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA[/COPYRIGHT]

Un commento sul "Ponte"

Rimini nel 1986 è la capitale italiana del lavoro nero, per la rivista dell'INPS. "La Stampa" nel 1987 dopo i 13 operai (8 non in regola) morti nel porto di Ravenna, accusa tutta la costa romagnola, con "quel miscuglio di arretratezza e sviluppo che ha prodotto un business tra i più importanti". Ed aggiunge: "la capitale riconosciuta di quest'area è Rimini". Tra gli operai morti, un egiziano di 32 anni che dormiva in uno stabilimento balneare a Cesenatico. Negli stessi giorni, in via Cormons, in pieno centro della Marina di Rimini, la polizia scopre 34 senegalesi che trascorrevano le notti in due stanzette.

I problemi ci sono, il nostro giornale non li ha mai nascosti. Dopo il caso di Ravenna, Renzo Gradara scrive che "di lavoro si può morire, oggi più di ieri". Ai funerali, l'arcivescovo Tonini parla di gente condannata "al ricatto: o disoccupato o uomo inutile o prendere quello che ti viene dato". Nel settembre 2006 il mensile "Tre" racconta: "Gli immigrati superano i locali nell'avvio di nuove attività". Venne da pensare ad investimenti mafiosi internazionali.

Scoprire oggi questi problemi come riflesso di altri drammi, parlare di "Rimini peggio di Rosarno" ("civetta" del "Carlino" del 19), è doppiamente fuorviante. Si considera la città occupata dalla mafia o dalla camorra. Il collega Curatola si chiede su Rosarno: "Possibile che nessuno sapesse?". In Romagna si sa. E si opera. Il polverone serve a far scendere una notte in cui tutto è buio. Dare notizie è il nostro mestiere. Inventarsi uno strillo così, "Rimini peggio di Rosarno", è un facile giochetto politico che nuoce alla verità. (a. m.)

Testo pubblicato su "il Ponte" di Rimini, n. 7, in edicola dal 22 e datato 24.01.2010.