Europa, una vocazione per Rimini
Il 25 marzo 1957 la radio trasmise la cronaca della firma dei Trattati di Roma con i quali nasceva l’Europa unita, costituita da sei Stati: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo ed Olanda. Ne avevo letto l’annuncio sul «Corriere della Sera», la Sacra Bibbia del conservatorismo politico, sintetizzabile con la famosa risposta che il suo mitico direttore di allora, Mario Missiroli, dette a chi gli suggeriva di trattare un certo argomento: «Per farlo, bisognerebbe avere a disposizione un giornale».
L’Europa che nasceva quel giorno a Roma era la realizzazione di un sogno politico diretto ad aprire nuovi orizzonti in un continente che, nel corso del Novecento, era stato ripetutamente ferito e distrutto dalle rivalità fra i Paesi nel segno di primati politici ed economici. La mia generazione (avevo quasi quindici anni), venuta al mondo proprio durante la seconda guerra mondiale, aveva motivo di nutrire una sincera speranza che i drammi di quelle precedenti non si ripetessero più. Finora fortunatamente è stato così.
Rimini nel 1957 già da tempo era una città con forte connotazione cosmopolita. La sua tradizione turistica l’aveva aperta allo scambio anche culturale con i popoli del continente. All’indomani della conclusione del conflitto durato dal 1939 al 1945, Rimini riprese ad accogliere ospiti dei Paesi europei con uno slancio simile a quello dell’effimero «miracolo economico» del resto d’Italia, ma con in più la certezza di rispondere ad una propria vocazione imprenditoriale ben salda anche dopo i momenti più bui. Vocazione che faceva dell’incontro con cittadini provenienti da Paesi diversi non soltanto lo strumento della propria ricchezza, ma anche l’occasione di sperare nella costruzione dell’unità politica del continente.
Nel 1980 il compianto prof. Giancarlo Susini, docente di Storia all’Università di Bologna, definiva Rimini una città «aperta» perché lungo i secoli ha tenuto le fila con l’Oriente e con il mondo per le vie del mare. Senza essere mai levantina, aggiungeva, in essa «qualche suo campanile si leva su come un minareto».
L’Europa di oggi guarda ad Oriente per fare del Mediterraneo il mare «nostro» non nel senso antico del termine usato dai Romani, ma in quello moderno di una comunanza di interessi ed intenti di tutte le popolazioni che vi si affacciano. In questo contesto e secondo queste prospettive, l’esperienza storica di Rimini ne fa una città antesignana dell’europeismo in virtù di un’esperienza che addirittura risale alla metà del Quattrocento. L’allora signore della città, Sigismondo Pandolfo Malatesti, ci ha lasciato un simbolo non soltanto della sua azione ma anche dei suoi progetti politici che sentiamo come nostri contemporanei. Mi riferisco al Tempio il quale racconta il senso della continuità storica del bacino mediterraneo, fatta di sintesi unificatrice che privilegia l’accordo, l’identificazione, il riconoscimento di ciò che è comune, mentre l’analisi strettamente geografica delle singole entità territoriali tende a dividere ed a contrapporre.
Se ripercorriamo pure le vicende culturali dei secoli successivi a quello di Sigismondo, vediamo un respiro non provinciale nelle nostre terre, anzi una prospettiva aperta allo scambio con le menti migliori dell’Europa. Citerò soltanto due esempi. Nel 1680 Marcello Malpighi invia da Bologna alla accademia londinese della Royal Society (di cui è socio), la copia di un testo scientifico pubblicato due anni prima da un uno studioso nato nel 1647 nella diocesi di Rimini, Giuseppe Antonio Barbari. Quel libro è ancor oggi a Londra, presso la British Library. Nel secolo successivo il nome del medico e scienziato riminese Giovanni Bianchi (1693-1775) gira per l’Europa soprattutto grazie ad un suo libro del 1739 dedicato alle conchiglie «poco note» ritrovate in riva al nostro mare.
Per riassumere l’ideale collocazione di Rimini nella storia degli ultimi secoli, ricorro al titolo di un volume («il Mulino», 1984) dedicato a Renato Serra: «Tra provincia ed Europa». Quell’Europa che non deve restare soltanto una moneta comune, ma pure una storia condivisa per lasciare a chi verrà dopo di noi qualcosa di più delle nostre speranze.
L’Europa che nasceva quel giorno a Roma era la realizzazione di un sogno politico diretto ad aprire nuovi orizzonti in un continente che, nel corso del Novecento, era stato ripetutamente ferito e distrutto dalle rivalità fra i Paesi nel segno di primati politici ed economici. La mia generazione (avevo quasi quindici anni), venuta al mondo proprio durante la seconda guerra mondiale, aveva motivo di nutrire una sincera speranza che i drammi di quelle precedenti non si ripetessero più. Finora fortunatamente è stato così.
Rimini nel 1957 già da tempo era una città con forte connotazione cosmopolita. La sua tradizione turistica l’aveva aperta allo scambio anche culturale con i popoli del continente. All’indomani della conclusione del conflitto durato dal 1939 al 1945, Rimini riprese ad accogliere ospiti dei Paesi europei con uno slancio simile a quello dell’effimero «miracolo economico» del resto d’Italia, ma con in più la certezza di rispondere ad una propria vocazione imprenditoriale ben salda anche dopo i momenti più bui. Vocazione che faceva dell’incontro con cittadini provenienti da Paesi diversi non soltanto lo strumento della propria ricchezza, ma anche l’occasione di sperare nella costruzione dell’unità politica del continente.
Nel 1980 il compianto prof. Giancarlo Susini, docente di Storia all’Università di Bologna, definiva Rimini una città «aperta» perché lungo i secoli ha tenuto le fila con l’Oriente e con il mondo per le vie del mare. Senza essere mai levantina, aggiungeva, in essa «qualche suo campanile si leva su come un minareto».
L’Europa di oggi guarda ad Oriente per fare del Mediterraneo il mare «nostro» non nel senso antico del termine usato dai Romani, ma in quello moderno di una comunanza di interessi ed intenti di tutte le popolazioni che vi si affacciano. In questo contesto e secondo queste prospettive, l’esperienza storica di Rimini ne fa una città antesignana dell’europeismo in virtù di un’esperienza che addirittura risale alla metà del Quattrocento. L’allora signore della città, Sigismondo Pandolfo Malatesti, ci ha lasciato un simbolo non soltanto della sua azione ma anche dei suoi progetti politici che sentiamo come nostri contemporanei. Mi riferisco al Tempio il quale racconta il senso della continuità storica del bacino mediterraneo, fatta di sintesi unificatrice che privilegia l’accordo, l’identificazione, il riconoscimento di ciò che è comune, mentre l’analisi strettamente geografica delle singole entità territoriali tende a dividere ed a contrapporre.
Se ripercorriamo pure le vicende culturali dei secoli successivi a quello di Sigismondo, vediamo un respiro non provinciale nelle nostre terre, anzi una prospettiva aperta allo scambio con le menti migliori dell’Europa. Citerò soltanto due esempi. Nel 1680 Marcello Malpighi invia da Bologna alla accademia londinese della Royal Society (di cui è socio), la copia di un testo scientifico pubblicato due anni prima da un uno studioso nato nel 1647 nella diocesi di Rimini, Giuseppe Antonio Barbari. Quel libro è ancor oggi a Londra, presso la British Library. Nel secolo successivo il nome del medico e scienziato riminese Giovanni Bianchi (1693-1775) gira per l’Europa soprattutto grazie ad un suo libro del 1739 dedicato alle conchiglie «poco note» ritrovate in riva al nostro mare.
Per riassumere l’ideale collocazione di Rimini nella storia degli ultimi secoli, ricorro al titolo di un volume («il Mulino», 1984) dedicato a Renato Serra: «Tra provincia ed Europa». Quell’Europa che non deve restare soltanto una moneta comune, ma pure una storia condivisa per lasciare a chi verrà dopo di noi qualcosa di più delle nostre speranze.
Antonio Montanari
Etichette: europa, rimini, trattati di roma
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